AL TEATRSO STABILE DI CATANIA
Traduzione, adattamento e regia di Gabriele Lavia
Ma cos’ha scritto quest’uomo?
Se lo chiede è lo chiede agli spettatori in piedi per applaudirlo, Gabriele Lavia al termine della sua magistrale interpretazione del Sogno di un uomo ridicolo.
L’uomo, lo scrittore a cui allude e Fedor Dostoevskij, nel racconto omonimo inserito nella raccolta Diario di uno scrittore, che ha concepito una vicenda surreale in cui il protagonista ha maturato l’idea di suicidarsi per mettere fine alle sue sofferenze e alla dimensione di profonda solitudine in cui vive.
Gabriele Lavia ha dato vita al racconto in una trasposizione teatrale (che porta in scena da molti anni in tutti i teatri d’Italia), che recupera tutta la potenza della parola che nel racconto è narrazione ed è riflessione, monito ed epifania, indagine psicologica e antropologica.
Il sogno di un uomo ridicolo fu pubblicato nel 1877 ed è un testo che si ricollega moltissimo con le riflessioni de Le memorie del sottosuolo che lo scrittore russo aveva pubblicato nel 1864.
L’uomo e la sua solitudine, l’indifferenza di fronte al dolore degli altri, l’alienazione del singolo che sente marcare lo scarto tra lui e il mondo ogni giorno di più, l’origine del male, sono i temi del racconto portato in scena da Lavia e di tanti testi di Dostoevskji. La frase emblema delle Memorie, è quella pronunciata dal protagonista quando dice “Io sono poi da solo e loro sono tutti”.
E così, l’uomo ridicolo -che si chiama Fedor non a caso- che racconta la sua storia di alienazione che viene definita follia, è un individuo che si scontra con la moltitudine della quale parla nel suo monologo perché loro, gli altri, lo giudicano un uomo ridicolo, un folle e qui il grande attore appare in scena rinchiuso in una camicia di forza, strumento con il quale si conteneva il potenziale pericolo di soggetti ritenuti diversi.
Il sogno è quello nel quale l’uomo ridicolo vede l’attimo preciso della sua morte da suicida e ha una “visione della realtà” una epifania nella quale raggiunge un mondo parallelo, su un altro pianeta. Un mondo felice, dove gli abitanti non conoscono il male, vivono nella concordia e lo accolgono. Ma lui, Fedor, diventa un atomo di menzogna che “penetrò nei loro cuori e li sedusse (…) poi rapidamente nacque la sensualità, la sensualità generò la gelosia, la gelosia generò la crudeltà (…) ben presto schizzò il primo sangue (…) si meravigliarono e inorridirono, e presero a separarsi e disunirsi (…) cominciò la lotta per la separazione, per l’individuazione, per la personalità, per il tuo per il mio, per il mio, per il mio (…)”. Con un contagio pestilenziale è lui che porta il male in quello che era un paradiso.
Rendendosi conto di essere la causa di quella dissoluzione chiede di essere ucciso per eliminare alla radice la causa del male. A quel punto si risveglia.
Al risveglio comprende di avere avuto una solenne rivelazione e che sarà suo preciso compito parlare, raccontare e predicare per diffondere il messaggio di amore, l’unica verità possibile che è poi quella del Vangelo: “Ama gli altri come te stesso”. Per questo gli altri lo giudicheranno pazzo, per questo verrà rinchiuso in un manicomio, per questo le parole che da sole toglierebbero il male dal mondo non saranno mai ascoltate.
Gabriele Lavia, che di questa spettacolo è interprete e regista, ci ha restituito una narrazione vibrante e dolorosamente vera. Tutta la parabola sulla genesi delle discordie, delle invidie, delle ingiustizie, delle guerre è una lettura sulla storia dell’umanità. Una riflessione che dovrebbe fare da monito in tutti i tempi come solo un grande classico può fare.
E’ la grandezza di Dostevskji che viene amplificata dalla bravura di Lavia il quale, accogliendo gli applausi si ferma e chiede “Cosa ha scritto quest’uomo?
Sul palco si muove e a volte cade, si rialza e si avvicina al pubblico un attore che è istrione e mattatore, impegnato in un soliloquio con alle spalle il suo alter ego agens che sul fondo concretizza i passaggi narrativi del racconto di Fedor.
L’ultima volta che il pubblico catanese aveva visto Lavia recitare era stato nei Giganti della Montagna, al Teatro Massimo Bellini in una edizione davvero magnifica e fantasmagorica con tanti personaggi e una grande scenografia.
Qui lo abbiamo trovato solo a riempire il palcoscenico con movimenti circolari, imprigionato in una camicia bianca di contenimento, carico di una voce così concreta da divenire forza scenica ed emotiva. Un’esibizione così potente da far penetrare le parole dello scrittore russo fin dentro le più profonde pieghe dell’animo dello spettatore.