Amenanos Festival 2025 si è svolto a maggio presso il Teatro Greco-Romano di Catania, presentando due importanti tragedie classiche: “Medea” di Seneca e “Le Baccanti” di Euripide, entrambe dirette dal regista Daniele Salvo, noto per le sue interpretazioni di tragedie greche e shakespeariane .
Entrambe le produzioni sono state curate dall’Associazione Culturale DIDE, con un cast composto da attori di livello internazionale.
Due tragedie classiche, due scelte differenti per tipologia di testo, temi trattati, epoca di composizione.
Per Medea la scelta è caduta sulla versione di Seneca, anziché la più nota, tratta da Euripide
Medea: Melania Giglio, Giasone: Michele Lisi, Creonte: Alfonso Veneroso, Nutrice: Marcella Favilla
Coro: Simone Ciampi, Cinzia Cordella, Silvia Pietta, Salvo Lupo
Costumi: Daniele Gelsi, Scene: Daniele Salvo, Luci: Elvio Amaniera, Aiuto regia: Matteo Fiori, Musiche originali: Marco Podda
Realizzazione scenografie Liceo Artistico Statale “M.M. Lazzaro” di Catania, Accessori: IIS “L. Mangano” di Catania
Data la diversa sensibilità dei romani rispetto ai greci, data la specificità di un autore che era fondamentalmente un filosofo, seguace dello stoicismo, la tragedia composta da Seneca tra il 61 e il 62 d. C, presenta molte differenze rispetto a quella di Euripide. Aver compiuto questa scelta può essere considerato un atto di coraggio che dimostra l’interesse non scontato di un artista, Daniele Salvo che ha dedicato la sua vita al teatro classico, allo studio della parola, restituendole, con le sue regie, l’autenticità dell’intenzione dell’autore e il rispetto del rigore intellettuale di chi si fa soltanto intermediario verso il pubblico.
In un’intervista che il regista ci ha rilasciato generosamente, ha puntualizzato il suo approccio : “… quello che cerco di fare è trovare la carica visionaria nei testi stessi. Non sovrapporre ai testi delle cose arbitrarie ma fare affiorare in filigrana le intenzioni dell’autore, perché credo che il vero regista sia l’autore e quindi detesto tutte le attualizzazioni o gli inserimenti arbitrari. Il regista può fare delle scelte, ovviamente, però sempre in relazione al testo.
Nel mio lavoro io cerco sempre di portare al massimo livello tutti i codici, cioè le luci, i costumi, l’azione. Questo è quello che si fa normalmente a Broadway, a Londra, a Berlino…
Secondo me la tragedia è la forma d’arte più contemporanea che ci sia di per sé; non necessita di attualizzazione ma bisogna trovare il modo di veicolarla al pubblico dei giorni nostri, un pubblico eterogeneo, fatto di turisti, di gente che è lì per caso, di professori, di critici, ma anche di persone che non sanno nulla di quello che vedono e quindi si devono emozionare, in qualche modo. E’ proprio l’emotività che rende la tragedia ancora rappresentabile.”

Ancora il regista ci ha spiegato: “Medea, è considerato un testo in-rappresentabile perché nasce come testo letterario, non è paragonabile a quello di Euripide, i bambini vengono uccisi in scena, per esempio. Un testo nero, efferato, era un po’ una sfida per me. Medea, che è la straniera che viene tradita con la rabbia che prende il sopravvento, l’assassina, la madre.. “
L’interpretazione di Melania Giglio ha dato uno spessore quasi tangibile alla realizzazione del ruolo. Una vocalità così intensa da farsi grido e canto, da spingere fino in alto nel cielo di Catania, un messaggio di vendetta e di morte. Il disegno atroce della donna tradita e accusata, destinata all’esilio e a subire la sorte anche per i figli, si fa corpo con l’attrice che si impossessa di tutta la scena e conclude il proposito orrendo dall’alto dell’edificio che funge da naturale skenè al palco. Un climax narrativo sottolinea il delirio di Medea che si fa via via più angosciante. All’inizio la donna ricorda i delitti compiuti dopo aver salvato Giasone, non per odio ma per amore; si difende dalle accuse di Creonte, si paragona ai mostri terribili come Scilla, Tifeo, Cariddi, e la sua rabbia cresce fino a farla diventare folle, quasi tarantolata nei gesti e nella recitazione. Seneca aveva dimostrato la sua attenzione verso il tema della follia anche nell’Hercules furens.
Giasone, interpretato da Michele Lisi, al contrario, in questa versione, è pieno di dubbi, vacilla più volte di fronte ai propositi di Medea, è succube di un principio di necessità in nome del quale tenta di trovare in Medea un punto di fragilità. La provocazione verso la donna si fa pungente in alcuni passaggi in cui dall’enfasi tragica la recitazione scende in un registro borghese, grottesco. Nei panni di Creonte, figura speculare a Medea e a Giasone, Alfonso Veneroso ha dato forma a un personaggio austero, vigoroso nei gesti e nella voce dal timbro scuro e vibrante.
Nel primo quadro sula scena si vedono cinque grandi specchi come monoliti che permettono di amplificare la figura di ogni personaggio che si muove davanti ad essi ma che permettono anche di rilanciare l’immagine degli spettatori seduti di fronte, come a voler rilanciare l’immedesimazione. Il regista chiama dentro l’azione, con il gioco di riflessi, il pubblico che non può solo assistere. La mostruosità di Medea ci riguarda, non ne restiamo fuori solo perché c’è una linea di confine tra il dramma e il pubblico. Le più terribili passioni, le più efferate violenze sono compiute dagli uomini. L’universalità del messaggio di Seneca è chiara. Non c’era catarsi nel teatro romano, non c’è sollievo nella rilettura di Daniele Salvo.
Il coro, con il racconto degli Argonauti che ricordano le imprese e il viaggio in mare, ha una struggente nostalgia poetica, anche se Seneca poeta non era. Gli attori impegnati a recitarlo ( Simone Ciampi, Cinzia Cordella, Silvia Pietta, Salvo Lupo ) hanno toccato le corde più profonde dello spettatore attento; così come gli inserimenti in latino nel rito di preparazione delle pozioni di Medea, nell’interpretazione di Melania Giglio che potremmo dire “rock” per la potenza, per l’immedesimazione, per la voce – sulle musiche di Marco Podda- per il totale possesso della scena che continua, come sempre, a dimostrare.
Totalmente fuori di sé, invasata e in preda alla rabbia feroce e determinata al misfatto, sul terrazzo dell’edificio sovrastante, con un fascio di luce addosso, si affaccia coi bambini in braccio e urla a Giasone di guardarla mentre scanna i piccoli frutti del loro amore infelice.
Sulla scena appare lo spettro del fratello come ad evocare la necessità della vendetta.
Le Baccanti di Euripide
Dioniso: Daniele Salvo, Penteo: Michele Lisi, Agave: Melania Giglio, Cadmo: Alfonso Veneroso, Tiresia / I° messaggero / Guardia: Simone Ciampi, II° messaggero: Silvia Pietta, Coro delle Baccanti: Elena Aimone, Cinzia Cordella, Giulia Diomede, Marcella Favilla, Carlotta Mangione, Silvia Pietta, Odette Piscitelli, Elisa Zucchetti
Costumi: Daniele Gelsi,Scene: Daniele Salvo, Luci: Elvio Amaniera, Aiuto regia: Matteo Fiori, Musiche originali: Marco Podda, Realizzazione scenografie: Liceo Artistico Statale “M.M. Lazzaro” di Catania, Accessori: IIS “L. Mangano” di Catania
In questa tragedia che Goethe definiva “la più bella d’Euripide”, l’opera sua per eccellenza dionisiaca e addirittura religiosa, l’ultima in ordine di tempo tra le tragedie greche giunte fino a noi, la celebrazione di Dioniso si ricollega alle origini della tragedia, alla tra-gedìa intesa come sacrificio del tragos. Questo aspetto, questa cifra di interpretazione è stata quella proposta da Daniele Salvo per queste sue Baccanti.
Nei costumi, negli elementi di scena, nell’intera impostazione, lo spettacolo a cui abbiamo assistito è stato contemporaneamente di massima attenzione al testo e di totale fisicità. Il coro delle Menadi (Elena Aimone, Cinzia Cordella, Giulia Diomede, Marcella Favilla, Carlotta Mangione, Silvia Pietta, Odette Piscitelli, Elisa Zucchetti), che sono le reali protagoniste già dal titolo, si presenta in scena in una perenne danza con costumi chiari; figure zoomorfe, oserei dire “tragomorfe”, invasate dallo spirito dionisiaco, tripudio dell’ebbrezza che porta a dimenticare la ragione e ogni controllo. Sono creature insieme eteree e carnali, strumento dell’ira furibonda del dio che non accetta di essere dimenticato e medita la sua vendetta contro la città di Tebe. Il rito delle Menadi è un’orgia sacra dove pose plastiche creano figure scultoree con sottofondi musicali originali o riproposti ( per esempio il brano di Eyes Wide Shut ) Alla presenza di uno scheletro e di un teschio che campeggiano in scena davanti all’azione, la più articolata delle vicende tragiche ha offerto al pubblico un susseguirsi di emozioni e personaggi intensi.
Lo stesso Daniele Salvo interpreta Dioniso definendo un ruolo forte, inquietate, irriverente, potente e a tratti irridente. Un po’ tiranno, un po’ sacrale, un po’ Joker, il regista/attore si scontra con il suo antagonista, Penteo e lo distrugge. Sotto la guida di Salvo, il Penteo di Michele Lisi appare in scena risoluto, cinico, autoritario col manganello in mano e spietato, poi diventa via via sempre più fragile nella sua sconfitta. In particolare nel dialogo con Dioniso che è uno scontro tra due forme di potere, quello umano del re e quello sacro del dio. Sempre nell’intervista il regista ha dichiarato: “La presenza di Dioniso ha a che fare con gli stati di alterazione più grave, la droga, l’alcool, e soprattutto la hybris perché Penteo è il prototipo dell’uomo politico vanesio, che pensa di fare tutto lui e non rispetta gli dei, né la morale. Anche questo di grande attualità.”
Anche in questa seconda rappresentazione la presenza di Melania Giglio nei panni di Agave ha esaltato il pathos della vicenda. La madre di Penteo compie il più orribile dei misfatti, ma lo fa in totale stato di incoscienza. Convinta di avere scannato un leone, sul Citerone, durante un folle baccanale, la donna consacrata a Dionisio si fa strumento della vendetta del dio e uccide il figlio. Arriva in scena in preda al delirio, folle e quasi sguaiata; poi, lentamente, di fronte al disvelamento dell’orrore, si spoglia del costume di Menade, riacquista lucidità e urla un dolore infinito, inconsolabile e assurdo.
