Ballando sulla fine della Storia: “Trilogia dell’Estasi” di Roberto Zappalà al Bellini di Catania

«Ma la cultura è ethos ordinante: e il disordine la indeterminazione ecc. stanno non come ideale ma come limite interno e come ironia di ogni progetto culturale di unificazione del mondo, limite e ironia che garantiscono la storia, cioè la inesauribilità della progettazione ordinatrice.»

E. De Martino, «La fine del mondo»

Ballando sulla fine della Storia: «Trilogia dell’Estasi» di Roberto Zappalà al Bellini di Catania

Quale daimon agita «La trilogia dell’Estasi» di Roberto Zappalà che ha concluso una trionfale settimana sul palcoscenico del Bellini di Catania? Quello che nell’incipit impone – su un ritmo tecno cupo e sinistro – neri spiriti con maschere da caprone, oppure l’altro, solare e luminoso, di una rinascita e di una liberazione che sembrano stentare se non ammutolirsi nel finale dove l’umano mostra, nel suo debordare, tutta la sua follia? Insomma verrebbe da dire: Apollo o Dioniso?

Meglio: né l’uno né l’altro. Poiché in realtà questa trilogia firmata a quattro mani dallo stesso Zappalà – per la regia e le coreografie – e da Nello Calabrò – per la drammaturgia – li fonde entrambi, anzi li oltrepassa lungo uno spettacolo fluido, visivamente seducente, ora ieratico ora furente, capace di spiazzare lo spettatore, farlo precipitare dentro una visione (nel senso dantesco del termine) e calarlo dentro una vertigine sonora, visiva e ritmica che invita a decifrare piuttosto che a guardare, a partecipare piuttosto che ad assistere. Ad interrogarsi, soprattutto, su alcuni spunti, che il coreografo catanese pone, e non solo in questo spettacolo: la violenza (non è certo un caso che la scintilla dell’intero progetto prenda spunto da un orrendo fatto di cronaca: lo stupro collettivo di una minorenne), la perdita del Sacro, l’isolamento e la violenza all’interno dell’oscuro dionisiaco della nostra contemporaneità. Una contemporaneità non sottesa ma viva e pulsante: nel pop delle scenografie metropolitane e delle luci e nel febbrile cromatismo degli originalissimi costumi (a firma dello stesso Zappalà in collaborazione con Veronica Cornacchini). Dunque la trilogia – sostenute dalla straordinaria resa dell’Orchestra del Teatro Massimo Bellini, diretta dal bielorusso Vitali Alekseenok – procede oltre la rivisitazione di alcuni monumenti ormai classici del balletto novecentesco – L’Apres midi d’un faune di Debussy, il Boléro di Ravel e Le Sacre du Printemps di Stravinskij tutti racchiusi in poco meno di un fecondissimo, folgorante ventennio (1913-1928) – per farne invece tappe di una discesa agli inferi e di una catabasi imprescindibile. Se il faune di Debussy allude alla clausura di un auto-erotismo sterile e l’incalzare del Bolero, nell’evidente omaggio kubrickiano, coinvolge coppie improbabili che danzano alla ricerca di una impossibile unione, solo il terzo quadro, quello stravinskiano dispiega tutto il selvaggio sballo collettivo che raggiunge il suo apice fin quasi alla sua autodistruzione, sprigionando una terribile nostalgia del futuro: qui, allora, l’angelo della storia di cui parlava Benjamin sembra avere le ali se non spezzate, immobilizzate dalla rete che, nella parossistica sequenza finale, cattura tutti. E pur nondimeno lo spettacolo realizza la sua stimmung proprio nell’arte: cioè nel progetto stesso della trilogia.

Con questo spirito, crediamo, Zappalà riesce a dialogare allora con Diaghilev e con Nijinskij, a coniugare le sue modernissime coreografie, i movimenti ora fratti ora inesauribili dei suoi ballerini – Samuele Arisci, Faile Sol Bakker, Giulia Berretta, Andrea Rachele Bruno, Corinne Cilia, Filippo Domini, Laura Finocchiaro, Anna Forzutti, William Mazzei, Silvia Rossi, Damiano Scavo, Thomas Sutton, Paola Tosto, Alessandra Verona, Erik Zarcone – a quelle partiture così diverse e distanti. L’intero spettacolo nel suo insieme è perciò letteralmente organico: pulsa, implode e si espande, si raggruma ed deflagra: e «questo avvicinarsi e allontanarsi, quasi come un ininterrotto movimento di sistole e diastole – dice Nello Calabrò – coincide con l’esigenza di cercare una visone propria […] non per il desiderio di ‘rileggere e riscrivere’ ma, appunto, per la necessità di (ri)trovare il proprio mondo poetico» e, aggiungiamo, il suo nitido spessore filosofico, in grado di mostrare, ancora una volta, grazie all’ethos ordinante dell’arte, tutto il meraviglioso e terribile intrico dell’humana conditio.

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