Adelmo Cervi a Misterbianco con “I miei sette padri”. Dal Libro al docu-film

Adelmo Cervi a Misterbianco con “I miei sette padri”. Dal libro al docu-film

La via F.lli Cervi a Misterbianco, fuori dal centro storico, collega l’abitato con la superstrada. Non so quando l’ufficio comunale di toponomastica decise di intitolare quella via ai fratelli Cervi, ma sono certa che ciò accadde dopo la pubblicazione del libro di memorie «I Miei Sette Figli», scritto da Alcide Cervi con la collaborazione e supervisione dei vertici del PCI, partito molto forte a quell’epoca anche a Misterbianco. La vicenda dei sette fratelli è adesso ripercorsa nel libro e»I Miei Sette Padri» (Tecnograf, Reggio Emilia, 2022) di Adelmo Cervi, già autore in passato di analoghe pubblicazioni e sanguigno rappresentante della sua famiglia. Il suo libro è anti-retorico. Non alimenta il mito dei sette fratelli caduti per la libertà, usa con parsimonia parole come Sforzo, Sacrificio, Eroismo. Nel suo libro, piuttosto, Adelmo Cervi ripercorre la vita di ciascun fratello, la biografia individuale, dando naturalmente maggiore risalto ad Aldo Cervi, l’uomo che lo ha generato, ed anche il più politicamente acceso dei fratelli, giacché faceva militanza politica in senso antifascista. Il libro di Adelmo Cervi non parte dalla tragica fine dei fratelli Cervi, cioè dai giorni in cui vennero arrestati, detenuti, processati sommariamente e fucilati, ma ricostruisce la famiglia: famiglia numerosa, composta da ben 9 figli, che vivevano seppur sposati tutti assieme nella stessa casa, un contesto nel quale è possibile che si creino delle peculiarità, delle tradizioni, dei caratteri specifici. Uno di questi caratteri dei Cervi è l’impegno sul lavoro, il cattolicesimo militante, lo spirito di organizzazione e solidarietà che è forse tipico dei contadini emiliani, ma particolarmente vivo nella famiglia Cervi, che offre ricovero agli oppositori del regime e a soldati nemici sbandati, che vengono nutriti e assistiti. I fratelli Cervi sentono forte il senso di libertà e non consegnano il grano all’ammasso, cioè sfidano l’economia di guerra. Aldo addirittura nel 1942 sino alla primavera del 1943 deve darsi alla macchia per reati annonari. Ovviamente Il fascismo si accanisce contro questa famiglia, che si era convertita al comunismo pur provenendo dall’Azione Cattolica e dal Partito popolare di don Sturzo. Non è ben chiaro quando avvenne questa conversione, generalmente fissata al 1929, anno in cui Aldo comincia la detenzione nel carcere militare di Gaeta. (Resta ancora da chiarire chi fossero i compagni di cella di Aldo: presumo che non fossero “politici”, altrimenti sarebbero stati destinati a ben altre carceri o al confino). Tutto questo è raccontato nel libro di Adelmo Cervi. Di notevole interesse è anche la vicinanza dei fratelli Cervi al pensiero liberale. Erano abbonati a «Riforma Sociale», un periodico diretto da Luigi Einaudi, un economista il cui pensiero era distante un abisso invalicabile dal comunismo di Marx. Un altro carattere distintivo dei fratelli Cervi e in particolare di Aldo è il fatto che uniscono la lotta politica alle attività nel campo dell’agronomia. I Cervi erano contadini di scienza, aggiornati sulle tecniche agrarie, pronti a qualunque sperimentazione che migliorasse il rendimento del podere, forti dall’essere così numerosi e coesi, incuranti dell’opinione dei vicini, che li consideravano degli originali, mezzi matti. Il senso di libertà, connaturato alla famiglia Cervi, si esprimeva nell’amore per il cambiamento. Non lo temevano. Decisero di non essere più mezzadri ma affittuari di terre. Questo significava che avevano un piccolo capitale, pagavano al proprietario una locazione annua ed erano totalmente liberi di coltivare ciò che volevano, come e quando. Presero in affitto una tenuta chiamata Campi Rossi e a breve comprarono un trattore, una rarità. Nel giro di pochi anni moltiplicarono la produzione di latte e bestiame, mentre migliorava anche la qualità del foraggio e mutava il paesaggio agrario, giacché livellarono fosse e buche e pareggiarono il terreno. Non è un caso se dopo la morte del patriarca Alcide Cervi, scomparso nel marzo 1970, lo studioso della storia del paesaggio agrario italiano, Emilio Sereni, nel 1972 fu cofondatore del «Centro Studi Fratelli Cervi» in seguito ribattezzato «Istituto Alcide Cervi per la storia del movimento contadino e dell’agricoltura, dell’antifascismo e della Resistenza nelle campagne». In altre parole i fratelli Cervi, uomini di matrice saldamente cattolica approdati al comunismo, non braccianti, aperti alle innovazioni tecniche, partigiani che non avevano ucciso, rappresentano una esperienza da valorizzare nell’Italia dei primi anni ‘70, una Italia caratterizzata dall’orizzonte degli anni di piombo, strage di Piazza Fontana, violenze di piazza, lotta armata di opposti estremismi, terrorismo e stragi neo-fasciste ecc. Dal libro di Adelmo Cervi Liviana Dalì ha tratto un docu-film. Non è la prima volta che si realizza un film sui 7 fratelli Cervi. Ricordo a questo proposito la celebre pellicola del 1968 con Gian Maria Volontè, Riccardo Cucciolla, Don Backy, Carla Gravina ed Lisa Gastoni, come attori protagonisti. Quel film ebbe una lunga gestazione. Già nel 1954 lo sceneggiatore Cesare Zavattini e la casa di produzione Ponti-De Laurentis volevano realizzare un film sulla vicenda, ma non riescono a trovare un regista. Si rivolgono dapprima a Pietro Germi, che fa un sopralluogo alla casa dei Campi Rossi ma subito dopo rinuncia, forse per ragioni ideologiche. La storia politica dei Cervi è molto complicata, il loro rapporto con il partito comunista ambiguo, la loro linea di condotta è fondata sul senso di libertà e non di disciplina. In quegli anni, inoltre, la storia dei Cervi si stava tramutando in un monumento comunista, come dimostrano anche le operazioni intorno al libro di Alcide, pubblicato nel 1955 con grande fortuna editoriale sotto l’egida di Togliatti e Calvino. Fu questo che senza dubbio spaventò Germi il quale si giustificò dicendo che i «Cervi erano comunisti e morirono per la loro fede. Un regista non comunista, come sono io, avrebbe rischiato di non inquadrare correttamente la loro personalità. Ne sarebbe risultato un film insincero e falso.» La casa di produzione del film contattò anche altri registi che declinarono l’invito: Luigi Zampa, Carlo Lizzani, Giuseppe De Sanctis e persino Luchino Visconti, che aveva autorevolezza ed era ben visto dal PCI. Forse il progetto era prematuro. Un film del genere avrebbe provocato dei conflitti, odio di classe, e avrebbe rinvangato vecchie faccende che al momento era meglio non rinvangare. Non conveniva al PCI sgretolare il mito dei sette fratelli. Passarono degli anni e si fece un film con regia di Giovanni Puccini. Lo sceneggiatore era sempre Cesare Zavattini. In linea con il clima esaltante degli anni ‘60 il film nostra delle forzature ideologiche, come emerge soprattutto nella scena dell’esecuzione finale nella quale si vede uno dei fratelli alzare il pugno chiuso in segno di sfida prima di morire. Il film fu presentato a Reggio Emilia nel febbraio 1968 in prima assoluta. Due giorni dopo muore Lucia Sarza, la partigiana interpretata da Lisa Gastoni e affascinante personaggio presente nello scritto di Adelmo Cervi e nel docu-film di Liviana Dalì.

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