IL GABBIANO di Anton Cechov

adattamento e regia di Sergio Campisi e  Roberto Costantini

Teatro Grotta Smeralda, di Catania 16 e 17 dicembre

Con Amedeo Amoroso, Margherita Malerba, Salvatore Intorre

Manuel Giunta, Silvana Lanza, Mirko Marotta, Giorgio Piccione

Lisa Angileri, Serena Giuffrida, Liliana Biglio

I danzatori: Samuele Moschetto, Ismaele Buonvenga

Scenografia  Damiano Scavo, Costumi Maria Rosa Judica, Luci Coco Service e Marco Laudani

Produzione Associazione Proscenio

Il gabbiano di Anton Cechov, messo in scena per la prima volta nel 1896 a Pietroburgo, al debutto fu un clamoroso insuccesso perché si trattava di un testo troppo rivoluzionario per il pubblico del tempo, pieno com’è di innovazioni sul piano strutturale e di linguaggio. Da allora, però, i più grandi registi si sono cimentati con quest’opera e ne hanno decretato il successo e la notorietà.

Il gabbiano è, infatti,  una “commedia non comica”, intrisa di riflessioni sull’arte, sul processo creativo, sul senso della vita dell’artista in generale, una rappresentazione in cui la vera azione avviene generalmente fuori scena e lo spettatore non ne vede che le conseguenze.

E’ il primo dramma  (o commedia, come l’autore amava definirla) cechoviano in cui si può parlare di teatro d’atmosfera. I protagonisti veri sono i sentimenti, gli stati d’animo che si realizzano come simboli, il titolo stesso è simbolico, Nina e Kostantin sono due gabbiani che tentano il loro volo incerto, e subito troncato, verso una vita ideale irrealizzabile. Il teatrino abbandonato è immagine simbolo delle speranze deluse a cui si associa alla fine anche il lago che, da fonte di ricordi felici, si fa, poi, spettrale.

Il gabbiano può essere considerato anche un dialogo sull’arte scenica e sullo scrivere che coinvolge direttamente lo stesso autore incarnatosi ora in Trigorin, ora in Kostantin.

Se ne desume che l’opera di Cechov è uno dei drammi più complessi ed evocativi del teatro moderno, non solo russo.

Per questo cimentarsi con questo testo è un’operazione intellettualmente coraggiosa, che richiede intuizioni e scelte registiche che si adattino a una tale complessità simbolica.

Della messa in scena ad opera di Sergio Campisi abbiamo molto apprezzato la passione (evidentemente trasmessa ad ognuno degli attori), l’intuizione di mettere in rilievo non l’aspetto più cupo del testo ma una sottesa, lieve speranza, legata alla possibilità del sogno, alla perseveranza di chi accetta il fallimento e il dolore ma ne cerca sempre una ragione. I tagli operati sui dialoghi seguono sempre questo filo sottile della speranza. I giovani attori della compagnia dell’Associazione Proscenio hanno seguito la linea tracciata dal regista con la stessa passione, è evidente. Insieme a loro e a loro sostegno un’attrice di lungo mestiere, che è stata una guida sicura per tutta la compagnia con la sua esperienza e bravura scenica: Liliana Biglio nei panni di Irina, l’attrice celebre ed egocentrica, madre di Kostantin ed amante dello scrittore Trigorin.

Fra tutti ci hanno  toccato i due “gabbiani”: Margherita Malerba che ha interpretato Nina rendendo viva e autentica la figura della giovane donna, aspirante attrice, amante delusa, creatura pura e legata alla vita e  Amedeo Amoroso, Kostantin, il vero protagonista, che ha reso il personaggio dell’artista inquieto e nevrotico, ambizioso e insicuro, così come lo aveva voluto Cechov, lui così alto e magro da incarnare perfettamente il simbolo di una creatura che cerca di spiccare il volo. Esteticamente bella l’idea di arricchire la messa in scena di una coreografia evocativa dei movimenti e del volo affidata a un danzatore (Samuele Moschetto).

Qualcosa, però, si scontrava con l’idea così ambiziosa. Forse la costruzione scenografica  imponeva movimenti troppo finti, uscite ed entrate attraverso porte precarie, le pareti fisse e gli oggetti di scena ingombranti e, forse, nell’insieme si perdeva la poesia che la regia e la passione degli attori hanno tentato di infondere in questa rappresentazione. Sarebbe stata più snella ed efficace una ambientazione simbolica, meno “costruita”, che avrebbe dato all’insieme un ritmo più adeguato a quell’espressività dei sentimenti che aveva ispirato Anton Cechov a comporre questo capolavoro.

Rimane comunque degna di merito l’operazione di un regista che ha affidato a una giovane compagnia questo suo sogno di “poter realizzare una “mia” versione, che mettesse ancora più in risalto la veridicità dei personaggi…al fine di risultare più attuale e condivisibile, cioè di poter parlare al cuore di tutti gli spettatori.”(note di regia)

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