La nuda verità e la scelta di responsabilità. Riflessioni su «Edipo re» di Robert Carsen e «Alla greca» di Elio De Capitani

«Edipo non sapeva di dormire con la propria madre ma, quando capì ciò che era accaduto, non si sentì innocente. Non poté sopportare la vista delle sventure che aveva causato con la propria ignoranza, si cavò gli occhi e, cieco, partì da Tebe», scrive Milan Kundera nell’«Insostenibile leggerezza dell’essere». Il punto principale su cui Kundera porta la nostra attenzione non è se il re Edipo sia o non sia innocente, ma se si sente innocente rispetto a degli atti ingiusti che ha compiuto senza esserne consapevole. In questo potremmo dire che la tragedia di Edipo (un re giovane e felice che andando alla ricerca di un mostro si rende conto di essere lui stesso il mostro) ha in sé un germe che può risuonare in qualunque essere umano. Dobbiamo sentirci colpevoli o innocenti degli errori che certamente abbiamo commesso nella nostra vita senza nemmeno rendercene conto? Qual è il grado di responsabilità che possiamo assumerci rispetto alle conseguenze di ciò che abbiamo causato, specialmente se ci troviamo in una posizione comoda e privilegiata come quella del re Edipo, un uomo che ha tutto da perdere e che con il suo potere potrebbe tranquillamente fare in modo di insabbiare le indagini, appioppare la colpa a qualcun altro e farla franca? Questo straordinario nodo tragico è stato attualizzato molte volte e con agganci alla nostra contemporaneità più o meno espliciti, più o meno efficaci nell’enfatizzare una delle storie più struggenti che l’umanità abbia mai raccontato. Vedere un Edipo accecato che scende la gradinata del suo palazzo ormai privo della divisa del potere (giacca e cravatta) per tornare alla dimensione spoglia e universale del corpo nudo è stato un momento di emozione fortissima la scorsa estate al teatro greco di Siracusa. Un’interpretazione essenziale e potente di Giuseppe Sartori e la meravigliosa regia di Robert Carsen sono state capaci di evocare una situazione fuori dal tempo, ma dove i pochi agganci alla nostra epoca – la giacca e cravatta appunto, la ventiquattr’ore di Creonte – risultano sempre al servizio della storia, utili a farla nostra e a comprenderla nelle sue tantissime sfumature, che in molti contesti politici e umani continuano a essere illuminanti oggi come duemilacinquecento anni fa. «Tomáš sentiva le grida dei comunisti che difendevano la loro purezza interiore e diceva tra sé: Per colpa della vostra incoscienza la nostra terra ha perso, forse per secoli, la sua libertà e voi gridate che vi sentite innocenti?», continua Kundera. «Come potete ancora guardarvi intorno? Come potete non provare raccapriccio? Siete o non siete capaci di vedere? Se avete gli occhi, dovreste trafiggerveli e andarvene da Tebe!» La responsabilità. L’innocenza. La giustizia. Il profondo legame che può intrecciare una particolare situazione nella storia con la dimensione narrativa, che per sua natura è chiamata a essere eterna e universale. Tutto questo purtroppo è mancato in «Alla greca», al teatro Elfo Puccini di Milano, dove un Edipo bamboccione si limita a fare la sua ascesa al successo e poi precipitevolissimevolmente precipitare giù senza affrontare nessuna delle scelte che rendono emozionante un’opera narrativa. La stupenda messa in scena di e con Elio de Capitani, con orchestrina dal vivo e un cast di attori straordinari che si muovono tra affascinanti scenografie industriali, stride sulla superficialità di un testo privo di una riflessione drammaturgica. Manca una vera e propria indagine sugli esseri umani, così come un senso alla riproposta della storia di Edipo in chiave britannico/punk. L’ambientazione contemporanea resta negli occhi più come una trovata estetica che come spunto di connessione profonda, e culmina in un colpo di teatro finale che non richiama tanto Sofocle quanto René Ferretti dato che che manca di ancoraggio con quello che avevamo visto fino a quel punto. Peccato, perché è proprio così, spogliando il teatro della sua funzione di nutrimento profondo dell’anima e lasciando che resti un colto divertissement per chi ha già gli strumenti necessari per cogliere citazioni e sfumature di regia, che il teatro inevitabilmente resta e sempre resterà appannaggio di quei pochi. E non lamentiamoci se le sale sono mezze vuote, non cerchiamo di appioppare la colpa a qualcun altro, perché la nuda verità è che spesso su Netflix possiamo trovare molta, molta, molta più di quella portentosa e umanissima magia narrativa che Aristotele chiamava catarsi.

Foto: Laila Pozzo

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