LA ZIA D’AMERICA alla Sala Futura del Teatro Stabile di Catania

NON ERA “SICHINENZA”!

E’ la frase conclusiva della Zia d’America, spettacolo andato in scena presso la Sala Futura del Teatro Stabile di Catania, come primo momento della trilogia Progetto Sciascia,  che l’ente catanese dedica allo scrittore di Racalmuto, per la regia di Lucia Rocco, con Roberta Amato, Luca Iacono, Silvio Laviano e la stessa Rocco. Scene e costumi Francesca Tunno, luci Gaetano La Mela, produzione Teatro Stabile, in scena da 9 al 12 maggio.

La “sichinenza” era la roba di seconda mano (second hand) che gli italiani emigrati in America e arricchitisi lì mandavano in Sicilia ai parenti rimasti in condizione di miseria e arretratezza, soprattutto a causa della guerra.

Lo scrittore Leonardo Sciascia pubblica nel ’58 questo racconto ambientandolo negli anni che vanno dal ’43 al ’48, cioè dallo sbarco degli Alleati in Sicilia alle elezioni con relativa vittoria democristiana. Il tema centrale, infatti, è quello del rapporto tra Italia e Stati Uniti che viene affrontato attraverso la lente della narrativa che mette a fuoco la vicenda di una famiglia che vive questo passaggio traumatico non solo in rapporto ai macro eventi che sconvolgono il Paese, ma anche per l’attesa snervante prima e l’arrivo dirompente poi, della zia, che appunto viene dall’America.

Nel racconto si incontrano e scontrano due nuclei familiari legati dalla consanguineità: uno ormai ambientato negli Stati Uniti, l’altro rimasto sempre in paese. L’io narrante è il figlio unico della madre siciliana che accoglie i parenti che arrivano e si innamora della cugina, giovane e carina, mai conosciuta prima. La ragazza, però, sarà destinata dalla madre (la zia spregiudicata e manipolatrice) a sposare l’unico zio paterno scapolo, per garantire un interesse patrimoniale.

Un confronto fra due mondi, una rappresentazione realistica e cinica di meccanismi sociali e morali che si innescarono in quegli anni di ricostruzione, di sogni infranti e di antiche nostalgie.

La zia che torna si aspetta di trovare una Sicilia di totale miseria e arretratezza e rimane delusa di fronte alla realtà. Il mondo che aveva lasciato partendo non esiste più ma quello che trova è ben diverso da come aveva immaginato quando mandava i pacchi alla famiglia.

Già, i pacchi dall’America! quei pacchi pieni di cioccolata e sigarette, di cappellini e stoffe, biancheria e vestiti, cappotti e spille da balia. L’elemosina che un mondo ricco faceva ai parenti poveri rimasti in Italia,  con tanta commiserazione e un pizzico di paternalismo.

La zia aveva portato grandi bauli pieni di cose, ma senza attenzione, senza reale considerazione, sbagliando le misure, senza tenere  in considerazione i reali bisogni di chi, in Sicilia, viveva in un modo molto diverso dalla moda e dalle abitudini americane.

Lei fa sfoggio della sua bella famiglia, dei suoi abiti coloratissimi, racconta degli agi in cui vive e si lamenta della casa che trova in Sicilia, senza doccia, col caldo, con le mosche…  Lei  vuole la sua parte di casa che le spetta, non è venuta per l’amore della sorella, non per generosità ma per interesse e si prende, in un modo o nell’altro, quello che è pretende. La sua generosità, falsa e ipocrita, l’aveva spinta a riempire pacchi per la famiglia siciliana, ma pacchi pieni di “second hand”… “sichinenza”, elemosina.

L’autore della Sicilia come metafora ha usato il racconto di una dimensione domestica per analizzare, con la lucidità che gli appartiene da quell’intellettuale illuminista che era, il rapporto che si instaurò dalla fine della Seconda guerra mondiale, tra l’Italia della ricostruzione e gli Stati Uniti, inneggiati a gran voce come i Liberatori. Una metafora abbastanza semplice da decodificare, un racconto speculare al tempo, una microstoria familiare che svelava i meccanismi della macrostoria italiana.  Amara la battuta affidata al figlio “ad avere i soldi vengono belle idee”.

Attraverso la sapiente regia di Lucia Rocco (che incarna anche il ruolo della giovane cugina, con  grazia e freschezza),  il progetto del Teatro Stabile ha saputo rileggere il testo di Sciascia in una chiave di rappresentazione snella e ritmata, intensa, consapevole ma anche tenera che ha fatto affidamento su una squadra di attori che continuano a portare (spettacolo dopo spettacolo) lustro al Teatro e alla città di Catania. Luca Iacono, ha dato voce all’io narrante di tutta la storia, il giovane figlio testimone di un passaggio storico ma anche vittima delle macchinazioni della zia. Ha lasciato intuire le illusioni e le disillusioni di quell’epoca anche soltanto dal movimento degli occhi,

Silvio Laviano (ritornato al suo pubblico catanese al quale era mancato) interpreta molti ruoli, che appartengono a rispettivi nuclei familiari, giocando con la duttilità espressiva che gli appartiene e una fisicità mimica e convincente in ogni personaggio, dallo zio siciliano (esempio del trasformismo della società di quel momento), allo zio americano, al delizioso piccolo cameo con cui la pièce si apre in cui, insieme a Iacono, ritagliano un fotogramma  davanti al film muto proiettato al cinematografo e loro due che si divertono beffeggiando il pubblico e facendo scherzi osceni, omaggio a Tornatore e cornice sincronica alla vicenda.

La protagonista, la zia spregiudicata e sguaiata, è, in questa versione, una Roberta Amato in pieno stato di grazia. Con una caricatura forzata al punto giusto, con le parole di etimo americano (storo, boifrendo, lofio, sichinenza) inserite nella lingua dei familiari, con  gestualità grottesca, esprime l’ambivalenza dei sentimenti nei confronti del paese e della famiglia d’origine e ha saputo creare una più che verosimile immagine di donna italo-americana. E’ divertente, a tratti simpatica, comica e anche sensibile -nel doppio ruolo della sorella siciliana- e poi si rivela antipatica fino a diventare odiosa nel finale, quando piena di boria e di arroganza, partendo con la famiglia arricchita di un nuovo membro, rivendica  la sua generosità e grida a tutti: “non era sichinenza!”, emblema sciasciano per denunciare il rapporto di sudditanza del Nostro paese con gli Alleati “liberatori” e sostenitori.

Nel complesso lo spettacolo si arricchisce dei costumi e delle scene (di Francesca Tunno) che hanno il compito di ricordarci  a quell’epoca, coi colori sgargianti per gli abiti della “famiglia americana” e anche di passaggi musicali che caratterizzano, nell’immaginario comune, quell’epoca: il boogie-woogie, lo swing, le canzoni degli anni Quaranta. L’atmosfera è perfettamente ricreata.

 

Loading