LIOLA’ la Commedia campestre diventa una nuova “pupazzata”

Il 1 novembre si  è inaugurata  la  Stagione  Teatrale 23/24 del Teatro Brancati di Catania, con Liolà  di Luigi Pirandello |

La nuova mise en scene ha visto la regia di  Mario Incudine e Moni Ovadia,  e l’interpretazione dello stesso Incudine, nei panni nel protagonista, e Paride Benassai, Rory Quattrocchi, Olivia Spigarelli, Angelo Tosto,  Aurora Cimino, Graziana Lo Brutto, Lorenza Denaro, Federica Gurrieri, Irasema Carpinteri, Rosaria Salvatico | musici Antonio Vasta e Denis Marino | popolane Valentina Caleca, Emilie Beltrami, Emanuela Ucciardo, Chiara Spicuglia, Flavia Papa.

Scene e musiche originali di Mario Incudine, costumi di Elisa Savi, movimenti e coreografie di Dario La Ferla, luci di Giuseppe Spicuglia, direzione musicale di Antonio Vasta.

Un testo “ripensato” e non reinterpretato, così il cantautore popolare siciliano ha definito questa lettura che insieme al regista ha voluto dare della commedia di Pirandello.

In questo ripensamento i due artisti hanno creato un dialogo interno tra i testi di Pirandello, inserendo dei passaggi narrativi che partono  da un capitolo de Il fu Mattia Pascal per poi diventare una commedia con canzoni che si ispira anche a un’altra novella dello stesso autore, La mosca.

Il risultato complessivo è stato quello di un’opera musicale a tutto tondo che guarda anche al presente e sottolinea il tema della genitorialità, dell’essere padri e madri, oggi.

La vicenda è nota ed è fra le più “veriste” delle opere di Pirandello. Una commedia campestre che parte dal tema della “roba” tanto caro a Verga, ma poi, va in un’altra direzione: quella delle convenzioni, delle apparenze, dei ruoli che vanno difesi e delle posizioni sociali da mantenere.

Liolà è l’uomo libero, che vive fuori da questi schemi, che ama la vita pura, senza le gabbie della forma, e ne esalta la gioiosità e l’autenticità.

Canta sempre la sua voglia di vivere libero come il vento e di lasciare andare la sua mente: “ahiu ppi ciriveddu un furrialori, veni lu ventu e mi lu fa furriari”…

Ama la vita a tal punto, Liolà, che quando le ragazze che seduce restano incinte lui si occupa dei bambini, li affida alla madre, che li cresce con amore e con la saggezza di un’ anziana donna di campagna.

Nella versione che abbiamo visto al Brancati, Incudine e Ovadia, spingono Pirandello a dialogare con se stesso, con il Pirandello della fase grottesca, costruendo una narrazione basata su musica e movimento che abbraccia il surreale della recitazione dove i personaggi diventano fantocci, molto simili a quelli dei Giganti della montagna.

Anche i tre bambini, i tre “cardelli” di Liolà, sono qui dei pupazzi di pezza, emblema moderno che rappresenta la strumentalizzazione che spesso si fa dei figli per ottenere privilegi e posizioni sociali.

Mario Incudine ha dato vita a un Liolà gioioso e malinconico, che usa il canto, gli strumenti musicali, non per accompagnare, ma per dare vita ad  un’impostazione totalizzante. Non è un musical né una commedia musicale, ma una pièce dove la musica predomina e coinvolge. Tutta eseguita dal vivo, con musici in scena, gli attori che cantano e recitano ritmicamente, la commedia campestre si è fatta contenitore di arti performative e di frammenti in cui gli attori che accompagnano Incudine danno mirabile prova di sé.

Angelo Tosto, nei panni di uno Zio Simone che si presenta anche come Prologo, come narratore e come “puparo”, lui che, nel pensiero di Pirandello, è il pupo dei pupi, erede del Mazzarrò verghiano, manovrato dalle donne che lo usano per i loro interessi, mosso dal desiderio di avere un erede e mantenere la sua rispettabilità. Ci ha sorpreso, piacevolmente, in questo doppio ruolo e nella sua performance di cantante.

Rori Quattrocchi, la grande regina del teatro palermitano, amata anche per i suoi ruoli al cinema (recentemente una tenerissima madre  in Nostalgia di Mario Martone), riveste qui i panni di Za Ninfa, mamma e nonna amorevole, che nell’adattamento musicale ha  arricchito la sua interpretazione con un intarsio narrativo, un breve “cuntu” per i nipotini ma rivolto al pubblico, un “a parte” fuori scena di forte impatto teatrale. Nel resto della rappresentazione ci è parsa, però, poco legata, poco in dialogo, quasi rimanesse isolata nel suo personaggio.

Olivia Spigarelli è,  Zia Croce, popolana opportunista, cinica, spregiudicata, come la figlia Tuzza, (così come la aveva pensata Pirandello) che qui diventa uno dei fantocci, col costume e il trucco di una maschera fissa, i movimenti meccanici, la mimica “stralunata” in questa impostazione che la regia ha voluto per decontestualizzare. La maschera che la Spigarelli si è costruita risente molto dell’eredità di Pipino il Breve, da lei recentemente interpretato.

Così meccanicamente si muovono Aurora Cimino (Tuzza) e Graziana Lo Brutto (Mita), anche loro nei costumi e nel trucco, nelle movenze e nella cadenza, sono “pupe”, come le bambole che un tempo si tenevano in bella mostra in salotto.

La scena si arricchisce poi con un gruppo di popolane che danzano, cantano, muovono anche gli elementi di scena, colorano di allegria e spensieratezza l’insieme che è composto da quindici elementi sul palcoscenico.

La vera novità di questa rilettura musicale è stato l’inserimento di un personaggio , Pauluzzu u foddi, che è, in parte, la Moscardina del testo pirandelliano, in parte un alter ego dell’autore siciliano, un pupo siciliano, anzi palermitano, spettatore e commentatore  dei fatti che accadono, una bambola parlante, bifronte, che esprime la saggezza più antica, in un dialetto dalle fortissime inflessioni palermitane, pieno di massime, filastrocche, proverbi. Divertente e filosofo, Paride Benassai, in questi panni che si è cucito addosso, strappa un sorriso e una riflessione -sul finale- sui temi universali di Pirandello: il tempo, la verità, la forma. Unica nota che non gli possiamo perdonare, l’aver stravolto il delizioso quadretto della Moscardina che descrive le donne in chiesa col ventaglio. Ecco, lì la riscrittura ci è apparsa davvero una forzatura non necessaria.

Si deve riconoscere a Mario Incudine e a Moni Ovadia la volontà di cimentarsi con un opera che i più grandi interpreti ci hanno regalato negli anni, si pensi a Turi Ferro, a Massimo Ranieri, a Gigi Proietti, e al mai troppo compianto Gilberto Idonea. Sono riusciti, nel complesso, nell’impresa proprio perché sono usciti dalla strada già percorsa e ne hanno tracciato una nuova, sapientemente, giocando fra i testi, portando il primo Pirandello, verso il pirandellismo dell’ultima fase e poi facendolo tornare indietro; arricchendo e colorando uno dei capolavori eterni della letteratura teatrale di un’atmosfera fiabesca.

Loading