Una storia di ordinaria follia: “L’analista” al Canovaccio di Catania

Il teatro è uno specchio. Ci restituisce le nostre imperfezioni e le nostre fragilità, le nostre ossessioni. I sogni e le illusioni. Quella vita che non riusciamo a vivere o a vedere. E quando lo fa fino in fondo diventa catartico. Si fa rinascita. Ho pensato a tutto questo alla fine de «L’analista» di Nicola Costa (autore e regista, reduce dal suo applauditissimo “Solo l’amore conta. Omaggio a Pier Paolo Pasolini”) che ha debuttato sui legni raccolti del Teatro del Canovaccio di Catania. Scritto durante il lungo silenzio imposto dalla pandemia, l’atto unico prende spunto da un incontro casuale con una donna – scrive Nicola Costa nelle sue note di regia – «dotata di uno straordinario intelletto e di una splendida sensibilità. Una storia di privazioni e violenze, di tentativi di reazione e di abusi emotivi ma anche di danni, che le sette religiose, al pari dei narcisisti, riescono ad infliggere agli sventurati di turno attraverso la manipolazione delle menti e delle emozioni.» In una stanza spoglia – solo il ricamo grigio dell’umidità a simboleggiare quello dell’animo – «io non so cosa mi sento» dice la paziente, una strepitosa Rossana Bonafede, finalmente tornata sulle scene. Una interprete di cui sentivamo la mancanza e che questo spettacolo ci ha restituito in tutta la sua accorata, versatile, ironica, profondissima umanità (e ancora ce la ricordiamo, tra l’altro, in un accattivante «Paraninfo» martogliano allo Stabile etneo). Non faremo certo torto a Nicola Costa affermando che è lei il cardine e il senso dello spettacolo stesso.

Quella paziente si mette a nudo (e lo spettacolo è anche in parte la storia di chi lo interpreta e coraggiosamente ha trovato pure il coraggio di condividerla sulla scena) davanti al pelosissimo e ostinato non detto, un silenzio – a volte squassato da una improvvisa e convulsa logorrea – contro cui la ratio del dottore, il suo linguaggio asettico e paludato, il suo tentativo di indirizzare il disagio verso la strada di una difficile autocoscienza, si smorza poco a poco. Forse in quel «dottore» (interpretato dallo stesso Costa) si agita il fantasma dell’impossibilità della scienza di afferrare in fondo il senso di ogni nostro atto. E infatti poco a poco, lungo i tre quadri in cui si scandisce lo spettacolo, la sua vis si fa pietas, diventa ascolto empatico, condivisione. Alla esplosiva e patologica vitalità della paziente – il suo lamentarsi e rimuginare in un loop ossessivo, tragico e ironico ad un tempo – per una relazione finita, per una storia di carenza affettiva, di manipolazione e di ricerca di libertà, l’analista cede poco a poco, fino a farsi quasi nuda presenza e infine testimonianza: tutto lo spettacolo è dunque un lungo flashback. Se nella prima parte «L’analista» esplora (anche in maniera quasi pignola) i meccanismi dell’esperienza e della perdita, dell’autoesclusione e della paura lungo la dialettica imperfetta tra analista e paziente, è nella sua parte conclusiva, nello straordinario monologo di Rossana Bonafede che, pur nell’incertezza di ogni dire – «la mia bocca non è mai fedele» dice la paziente – sembra quasi condensare anche in quella sua «lacrima sfuggita», l’universo della condizione umana. Perché piangere in tutte le maniere in cui è possibile farlo, anche aggirandosi in un istituto per problemi mentali, ci restituisce com’è meraviglioso e difficile ad un tempo essere: la sola verità che possiamo afferrare.

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