«Un’isola di libertà»: voci, corpi e visioni nel teatro di Giuseppe Massa
«Un’isola di libertà»: voci, corpi e visioni nel teatro di Giuseppe Massa
Dopo il grande successo di Rusulia Superstar, Giuseppe Massa e la sua compagnia Sutta Scupa debuttano con Rose, un nuovo capitolo della loro ricerca teatrale. Uno spettacolo nato da una riscrittura originale a più voci, affidata a sette artiste – tra cui Rori Quattrocchi, Simona Malato, Valeria Sara Lo Bue – insieme a giovani interpreti. È uno spettacolo-festival, un pellegrinaggio teatrale che attraversa Palermo e la sua provincia in sette tappe pensate per abitare luoghi simbolici e carichi di significato. Lo spettacolo ha debuttato il 9 luglio, con la performance di Valeria Sara Lo Bue, e si concluderà il 19 ottobre, con Rori Quattrocchi, all’Ecomuseo Mare Memoria Viva. Alla luce della natura stessa del progetto e della fase di trasformazione che Sutta Scupa sta attraversando, tra riconoscimenti internazionali, nuove alleanze artistiche e una riflessione aperta sullo stato della cultura nel nostro Paese, Giuseppe Massa, drammaturgo, attore e regista palermitano, racconta. Rose nasce da Rusulia Superstar e si sviluppa attraverso sette voci della scena femminile siciliana. Cosa ha significato per te affidare il testo originale a sette artiste diverse? È un atto di fiducia, ovviamente, e d’amore. Sono sette voci con le quali ho collaborato e che stimo, fanno parte del mio percorso all’interno del teatro. Stiamo parlando di Aurora Quattrocchi, Simona Malato, con la quale sono cresciuto teatralmente, Nancy Trabona, Simona Sciarrabba, Ileana Cusimano, che appartiene alle nuove generazioni, Daria Castellini e Valeria Sara Lo Bue, che peraltro sarà la prima ad aprire questo tour in sette passi. La compagnia ha ricevuto un importante riconoscimento internazionale per un lavoro ventennale, che ha saputo parlare al mondo senza mai perdere radicamento. Come si coniuga oggi questa doppia vocazione, locale e globale, nel vostro lavoro quotidiano e nelle vostre scelte artistiche? Il rapporto con il territorio è una scelta che è figlia della decisione di continuare a vivere a Palermo. Dopo che abbiamo fondato Sutta Scupa abbiamo intrapreso questo percorso, assolutamente radicato nel territorio. Spesso i testi nascono dal dialetto palermitano e poi vengono tradotti in altre lingue. Sono testi fortemente radicati, sia dal punto di vista linguistico che di alcuni stilemi. Allo stesso tempo, siccome i Maestri che ha avuto guardavano al teatro contemporaneo in senso ampio, sia europeo che internazionale, abbiamo avuto modo di poterci confrontare con delle realtà di carattere internazionale. A settembre ci sarà un importante meeting con realtà della Papa Nuova Guinea, del Biocon della Nuova Zelanda. La possibilità di confrontarsi, sia su qualcosa di fortemente radicato nel territorio, sia in dialogo con le realtà di più ampio respiro, con stilemi del teatro contemporaneo, credo che sia necessario e allo stesso tempo impreziosisce il nostro percorso all’interno del teatro. Quali sono le sfide ma anche le responsabilità nell’aprire la propria casa teatrale a compagnie e a ricercatori che vengono da ogni parte del mondo, soprattutto a Palermo che è una città stratificata, complessa, che ha delle sue situazioni particolari? Io sinceramente ho sempre vissuto Palermo come un avant posto di multiculturalità, il multiculturalismo è assolutamente stratificato nei secoli ed è assimilato nel popolo. È ovvio che ci sono episodi di intolleranza, come ovunque in Occidente, però in realtà nei quartieri popolari, che sono quelli che parlano alla gente, vi è una forte emancipazione sulla diversità, in generale. Di conseguenza sono orgoglioso di poter far conoscere il progetto Sutta Scupa, che da quasi vent’anni collabora con gli immigrati, anche seconda generazione, e che fa del multilinguismo e della multiculturalità una sua connotazione quasi identitaria. Il vostro lavoro attraversa le periferie, coinvolge migranti, donne, persone giovani e ultimi. In che modo il teatro oggi può ancora essere uno strumento trasformativo reale, non solo simbolico, per chi vive ai margini? Attraverso la comunità. Nelle periferie, nei luoghi socialmente fragili, la solitudine esistenziale che viviamo raggiunge apici ancora peggiori. Attraverso il teatro, che provo a fare, provo a dare in primo luogo una nuova famiglia, una famiglia allargata, vera, in cui ci si possa confrontare dentro un’isola di libertà dettata dal teatro. Attraverso il teatro si innescano relazioni vere, in cui ognuno è libero di poter rappresentare se stesso attraverso l’altro. Penso che sia assolutamente necessario, nella nostra società, la possibilità di avere quest’isola di libertà comunitaria. Non una libertà individualista, come quella che ci propinano, ma comunitaria che unisca nelle differenze.

La Digital Ethnography dell’Università di Oakland riconosce Sutta Scupa come realtà di punta del teatro di ricerca sociale. Cosa significa oggi fare ricerca in teatro e quale spazio trova in Italia un approccio così profondamente antropologico e intersezionale? Sicuramente di far dialogare la produzione e l’innovazione, quindi ci siamo confrontati con il teatro delle ombre, insieme al mapping. In una delle ultime residenze abbiamo provato a fare interagire la pesia di Franco Scaldati, un importante autore di respiro internazionale, che non c’è più , con l’intelligenza artificiale. Attraverso quest’interazione proviamo a creare ibridazione e di conseguenza proviamo a capire come possano nascere nuovi stilemi. Il rapporto con il teatro sociale è una cosa assolutamente naturale. Nel rispetto delle differenze, dei limiti del gruppo, il teatro comunque dà cittadinanza a tutti. Non c’è soltanto il palco, c’è la realizzazione delle scene, c’è la realizzazione delle luci, del suono, ci sono tanti ruoli che metto in campo insieme, affinche si possa creare un’isola di cittadinanza e di libertà. Il riferimento al teatro sociale è un modus operandi. Affronto tematiche che avrei affrontato anche con attori professionisti, ma lo faccio con le persone meno fortunate. Spesso la compagnia è composta da gruppi eterogenei, composta sia da attori professionisti che non. Spesso è multidisciplinare, collaboro con musicisti, compostori, si crea una sorta di Babele che ha una sua forza identitaria. Nonostante questi riconoscimenti, Sutta Scupa non è rientrata nei fianziamenti del FUS, senza entrare nel terreno della polemica, qual è la tua lettura di questa esclusione e cosa dice del sistema di sostegno alle arti in Italia? Voglio andare oltre Sutta Scupa perché è ovvio che non è stata una cosa piacevole, è dolorosa, l’assenza di questi finanziamenti mina il futuro dell’associazione e di tutti quelli con i quali collaboriamo. Penso che ci sia un disegno politico, oggettivo, che sia quello di minare le realtà che praticano la ricerca sia estetica sia sociale, al fine di favorire altre realtà che fanno più teatro da botteghino. Anche Sutta Scupa si confronta con importanti attori, attrici, autori, ma sicuramente non è il primo obbiettivo di Sutta Scupa. Riempiamo i teatri, abbiamo un pubblico che ci segue ed è assolutamente affezionato al nostro percorso, dall’altro canto io credo che se poi c’è uno spettacolo con un attore famoso del cinema che fa una lettura su un testo, fa più pubblico e a quanto pare il Ministero vorrebbe andare su quella linea, ed è gravissimo, perchè togli la cultura come bene pubblico, diventa quasi un bene privato. Non mirano al processo artistico, sociale, processo trasformativo. Stanno virando su qualcosa che Sutta Scupa non fa, e non farà mai. Il nostro obiettivo è fare in modo che si crei comunità, che il pubblico esca con delle domande alle quali, spesso, non diamo delle risposte, perchè ci interessa di più produrre pensieri. Tornando a Rose; cosa possiamo aspettarci da questo spettacolo corale? Che cosa ti auguri che lasci a chi lo vedrà? soprattutto in questo momento storico così fragile e contraddittorio, cosa secondo te il pubblico potrà cogliere dallo spettacolo? Sette modi di interpretare il testo, attraverso sette rivisitazioni, sette performance differenti. Il testo si ispira fortemente alla vita della nostra padrona, Santa Rosalia, dal punto di vista laico, non religioso, prova ad affrontare la sacralità che si nasconde nel quotidiano. Io spero che possa passare un messaggio di speranza, che è quello di cui abbiamo bisogno in questo momento. Speranza non come parola vuota, ma che sia anche azione. Abbiamo bisogno di azioni che siano forti e che lascino un segno, che siano prese di posizioni determinate. È un momento in cui bisogna essere espliciti, dichiararsi contro la guerra senza giustificazioni. Si può concludere che Rosalia è il simbolo profondo di rinascita, devozione popolare e resistenza civile, restituita in uno spettacolo corale, a sette voci, con sette sguardi, che sanno restituire in scena un gesto personale, potente e capace di attraversare memorie e visioni con autenticità. Un lavoro che segna un nuovo capitolo nella ricerca teatrale di Sutta Scupa, compagnia indipendente che da oltre vent’anni si muove al confine tra arte e impegno civile, con uno sguardo radicale sul presente e una costante tensione verso ciò che ancora può essere immaginato.