Un macrò piccolo piccolo: “Il Francese” di Massimo Carlotto
Era rimasto quello di sempre: Toni Zanchetta, il Francese. Il pappone a sonagli.
A volte non si può fare a meno di confessare una dipendenza. Specie quando di mezzo c’è uno che si chiama Massimo Carlotto. Il suo ultimo libro – “Il Francese”, appena uscito nella collana “Il Giallo” di Mondadori – è un altro di quegli spaccati impietosi del Nord-est italiota, cui ha dedicato alcune tra i suoi ultimi romanzi. Il Francese, al secolo Toni Zanchetta, è un macrò: nel gergo malavitoso, l’uomo che gestisce una maison di prostitute addestrate ad incarnare diverse tipologie del desiderio per una clientela medio-alta.
E’ un individuo che ha fatto della violenza, della menzogna e dello sfruttamento i cardini della vita e che sguazza in ambienti “ottusi ed implacabili”: un miserabile uomo piccolo piccolo anche se divide a metà i proventi con le sue “ragazze”. Pestaggi, stupri, intimidazioni: un lungo apprendistato che ha reso Zanchetta quello che è: uno sfruttatore e un manipolatore senza pietà. Le sue sono squillo “di lusso”, dodici insospettabili donne giovani e meno giovani con un disperato bisogno di denaro, donne in difficoltà che prima ha cautamente avvicinato, blandito e avviato poi a quella seconda vita che permette loro di sopravvivere nell’illusione di un affrancamento. Il Francese ha fatto terra bruciata della sua stessa esistenza nell’illusione di non essere alla stregua degli altri papponi e quando tenta di dare – dopo la scomparsa di una sua giovane mademoiselle e la conseguente caduta della sua maison nelle mani della terribile criminalità serba – una parvenza di normalità ad una svolta che dovrebbe essere definitiva non può: tutto crolla, anche la tristezza lo afferra: è “irrimediabilmente perduto”. Ma forse lo è sempre stato, come gli ricorda impietosamente la commissaria Ardizzone, la sbirra dura che lo incalza senza tregua e che lo costringerà a diventare un informatore. Il Francese e gli altri con lui si muovono in un mondo di finzione, di abiezione e di sordidi interessi in cui si gioca una partita senza scampo e senza pietà. Dopo la caduta le sue ex mademoiselles si ribelleranno contro di lui diventando sex workers: forse uno degli aspetti meno amari di tutta la narrazione: una nemesi di vindici per forza, costrette a ragionare come il mondo per poter sopravvivere a quel mondo: da proletarie sfruttate rivoluzionano i rapporti di lavoro fino a capovolgerli, diventando titolari – vendendo sesso e non il loro corpo – del loro misero destino. Carlotto non imbastisce trame ad effetto, non strizza l’occhio a tanta (pseudo) letteratura di genere avvezza a mettere in campo squadre speciali di super-poliziotti o di malvagi che spesso si rendono se non proprio simpatici, quanto meno giustificabili nel loro orrore. Affatto. Carlotto narra di una deriva economica e dunque sociale che dura almeno da trent’anni. Scardinando la faccia pulita dell’Italia che lavora e produce, dietro la quale si nasconde un mondo di perfidia e di interessi senza scrupoli, ci restituisce un paese arrabbiato, malato, violento. Certo, non nella sua totalità, ma la crepa entro cui si insinua la penna di Carlotto apre uno squarcio che dietro ad una facciata di rispettabilità mette a nudo personaggi ipocriti e falsi. “Esiste un altro mondo, ma è in questo”, scriveva Paul Éluard: e Carlotto ci fa scoprire nell’Italia un’altra Italia sulla quale le parole sfottenti del Francese suonano come un epitaffio: “Qui siamo in Veneto, la terra del nero e dei maghi dell’evasione. Non siete nemmeno riusciti a farvi restituire i quattrini dei grandi scandali dopo i processi e le condanne, e pensate di trovare i miei quattro soldi?” Attraverso personaggi che conoscono le loro e le altrui debolezze, le loro bugie e le loro infamie Carlotto squaderna un universo verghiano di sconfitti – anche se alcuni sono dei vincitori (temporanei) sul piano economico – senza deformazioni espressioniste piuttosto con la lucidità di un reportage: unica concessione (se vogliamo chiamarla così) ai topoi del noir, l’ambientazione della narrazione lungo un’estate calda e appiccicosa; l’apparente assenza di uno stile – quindi di una assuefazione a stilemi e canoni del genere – diventa così lo “stile” di Carlotto. Uno stile apparentemente dimesso ma che trova proprio in questa sorta di impersonalità sempre incalzante, sempre tesa al massimo, una forza di decifrazione del reale irrefrenabile. Nessuno la fa franca nel mondo irredimibile di Carlotto.