Grande successo di pubblico al “Piccolo” di Milano per il Romeo e Giulietta messo in scena da Mario Martone. La spettacolare scenografia e lo splendido disegno delle luci confezionano uno spettacolo di enorme fascino visivo cui fa difetto una perseguita difformità stilistica e drammaturgica.
Non c’è dubbio che quella vista al Piccolo Teatro di Milano con la regia di Mario Martone rimarrà un’edizione “storica” del Romeo e Giulietta shakespeariano per varie ragioni; non ultima, che è la prima volta che questo testo approda sul palcoscenico del teatro italiano più famoso al mondo, e, per prima, perché possiede una spettacolarità travolgente, così forte ed esibita per un dramma/testo che in apparenza non la prevede e forse neanche la contiene. Certo, c’è stata l’edizione sfavillante di Zeffirelli, ma era tutta dentro una eleganza fine a se stessa. In questo caso, già ad apertura di sipario, restiamo sbalorditi e conquistati dalla magnificenza di quell’immenso tronco d’albero che attraversa a mezz’aria la scena in tutta la sua parte e la divide in due: sopra, una foresta di alberi occupata da figure che sembrano nascondersi, tanto da farla somigliare a quella di Sherwood (altro luogo, altra storia), sotto uno spazio d’oggi, da periferia metropolitana, occupato da una polverosa automobile sfasciata sul lato sinistro e poi bidoni sparsi e copertoni: un cimitero di macchine abbandonato come in un universo panico di Arrabal, o d’Arcadia seicentesca il cui fine è solo la “meraviglia”. A collegare questi due piani/mondi diversi, scale, rami d’alberi, scivoli nascosti, porte segrete. Ma le sorprese non finiscono qui. Da sopra viene in luce una consolle da disco-music e partono ritmi dancing come di una festa all’aperto in un bosco, con gente che balla, quasi un rimando allo shakespeariano Sogno di una notte di mezza estate. Insomma, siamo entrati in un universo teatrale che vive di “contaminazioni” manifeste, di discordanze volute, di incongruenze prestabilite rispetto al testo teatrale di partenza. Intanto che la storia va avanti si svela un testo che ha perso la sua “drammaturgia” originaria e procede in totale libertà linguistica ed espressiva che attribuisce ai personaggi giovani i versi poetici del Bardo, mentre ai loro genitori e ai personaggi più maturi il linguaggio proprio dell’oggi, in una dinamica d’opposizione verbale che ne mette in evidenza il conflitto generazionale, ma soprattutto sociale e culturale. Il copione, scritto “sotto maligna stella”, astuzia (mi vien da dire) da Chiara Lagani mi pare alla fine risulti un perfetto esempio di testo post-drammatico (con tutto quello che questa definizione si porta dietro e significhi), che adotta la forma sperimentale, di cui Edoardo Sanguineti ne fu l’inventore e maestro, del travestimento linguistico, della parodia e della blasfemia letterale che raggiunge lo scopo di creare una deflagrazione lessicale di indubbia efficacia scenica e uditiva. I personaggi (e gli attori) dimenticano la vicenda a cui appartengono ed è come se ne creassero ora una nuova, lì, all’istante. Per cui recitano ciascuno a modo loro, secondo il momentaneo sentire, in maniera difforme gli uni dagli altri, comunicando veramente solo attraverso i loro corpi, i movimenti, i gesti, le corse che fanno fuori e all’interno del palcoscenico, senza nessuna intenzione se non quella di quel preciso contesto teatrale che li obbliga e circoscrive.
E così vengono fuori le singole individualità degli interpreti, le loro caratteristiche recitative, la loro abilità e bravura, come le acerbità più palesi, in una varietà di stili e tenuta attorale in cui risiede l’anomalia più evidente dell’intera rappresentazione. Qualche scena del dramma originale viene abolita, altre modificate o riscritte, alcune chiaramente re-inventate, inedite, con un paio di interventi “in voce” fuori campo (un eccellente Michele Bottini) di matrice shakespeariana, a commento e raccordo della tragica vicenda. Spiazzanti la laicità di Frate Lorenzo (Gabriele Benedetti) e la nuova identità della Nutrice di Giulietta, qui divenuta zia Angelica (una dinamica Licia Lanera), mentre acquistano carattere i genitori di Giulietta: lo sfrontato padre dello strepitoso Michele Di Mauro (“ma come parlate?”) che mostra il suo orologio al polso e insulta la figlia chiamandola putrida, carogna, bagascia, e la intemerata madre di Lucrezia Guidone. Giovani dell’età giusta, e bravi nella loro spavalda ingenuità Anita Seravini (una determinata Giulietta) e Francesco Gheghi (un impetuoso Romeo), mentre Alessandro Bay Rossi nella parte di Mercuzio si impone sugli altri giovani delle bande contrapposte dei Capuleti e Montecchi per abilità recitativa e presenza scenica. Così dopo tre ore tutte filate, senza intervallo, (ma il tempo passa che è un piacere) si arriva al doppio suicidio dei due giovani amanti/sposi nella cripta/cimitero, la cui scena funebre viene aumentata d’intensità dall’arrivo inaspettato dei fantasmi di Mercuzio e Tebaldo insanguinati, che coi loro corpi fanno rispettivamente da corona all’amico del cuore e all’amata cugina, in una concessione probabilmente splatter ma di indubbia efficacia e sensibilità drammatica, e che forse vuole anche essere un richiamo (involontario?) al mondo teatrale shakespeariano, o al post-romanticismo di Frank Wedekind e al suo Risveglio di Primavera (1906). Torrenziale e nera la bellissima pioggia del quadro finale che chiude, crosciante, la rappresentazione, accompagnata dai suoni genialmente ideati da Hubert Westkemper che ci hanno assediato per l’intero spettacolo e dal video potente di Alessandro Papa. La regia di Mario Martone avendo rinunciato ad un “punto di vista” generale che accogliesse tutte le difformità progettuali del lavoro, dà a volte l’impressione di una certa disorganicità (la natura episodica degli eventi narrati), e di una tenuta scenica casuale e frammentaria. Ma, forse questo è l’inevitabile prezzo da pagare alla “cosa nuova”.
ROMEO E GIULIETTA di William Shakespeare. Traduzione di Chiara Lagani. Adattamento e regia di Mario Martone. Scene di Margherita Palli. Costumi di Giada Masi. Luci di Pasquale Mari. Suono di Hubert Westkemper. Video di Alessandro Papa. Con Alessandro Bay Rossi, Gabriele Benedetti, Leonardo Castellani, Michele Di Mauro, Raffaele Di Florio, Emanuele Maria di Stefano, Francesco Gheghi, Jozef Gjura, Lucrezia Guidone, Licia Lanera, Anita Serafini, Benedetto Sicca, Alice Torriani, Leonardo Arena, Giuseppe Benvegna, Francesco Chiapperini, Carmelo Crisafulli, Giacomo Gagliardini, Hagiar Ibrahim, Francesco Nigrelli, Libero Renzi, Federico Rubino e gli allievi del Corso Claudia Giannotti della Scuola di Teatro Luca Ronconi del Piccolo Teatro di Milano Clara Bortolotti, Giada Ciabini, Ion Donà, Cecilia Fabris, Sofia Amber Redway, Caterina Sanvi, Edoardo Sabato, Simone Severini. Voce registrata di Michele Bottini. Regista assistente Raffaele Di Florio; assistenti alla regia Michele Bottini, Giulia Sangiorgio. Casting Paola Rota. Produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa