Morte di un partigiano. Il comandante Facio: il saggio di Pino Ippolito Armino
“Se voi volete andare in pellegrinaggio
nel luogo dove è nata la nostra Costituzione,
andate nelle montagne dove caddero i partigiani,
nelle carceri dove furono imprigionati,
nei campi dove furono impiccati.
Dovunque è morto un italiano
per riscattare la libertà e la dignità,
andate lì o giovani, col pensiero,
perché li è nata la nostra Costituzione.”
Piero Calamandrei, 1955.
“Saggio storico sulla moralità nella Resistenza” è il sottotitolo di “Una guerra civile” di Claudio Pavone (Bollati Boringhieri 1991). Può sembrare un dettaglio poco significativo, ma che invece dice tanto: “nella Resistenza, non della Resistenza”. A significare che, secondo l’ex partigiano Pavone, la resistenza non era stata “morale” per definizione. “ Che durante i venti mesi dell’occupazione tedesca e della guerra civile, la moralità dell’azione partigiana era stata una conquista piuttosto che una prerogativa. Che era il risultato di un percorso, piuttosto che garanzia a priori. Gli eroi della Resistenza non erano nati belli e fatti, ma si erano costruiti nel tempo, attraverso esperienze ed errori.” Esemplare, a questo punto, è la vicenda del calabrese Dante Castellucci. Scriveva pochi anni fa Pino Ippolito Armino: “Nella regione dove sono nato, la Calabria, sono poche le commemorazioni e rari i monumenti ai partigiani, i cui nomi sono stati spesso dimenticati e a volte neppure vennero mai conosciuti.” (Storia della Calabria partigiana, Pellegrini, 2020). Un luogo comune vuole che i Resistenti fossero sostanzialmente settentrionali poiché la guerra partigiana fu combattuta in prevalenza nel Centro-Nord. In realtà, il contributo dei meridionali alla guerra di Liberazione fu invece notevole. Molti di loro, da arruolati nelle forze armate italiane, scelsero di non arrendersi ai tedeschi sui vari fronti di guerra al momento dell’armistizio. Anche i calabresi partigiani non furono pochi e moltissimi di loro persero la vita combattendo contro i fascisti e gli occupanti nazisti. Solo negli ultimi anni si sta sollevando il velo sui molti lati oscuri della guerra di Liberazione, grazie alle mutate condizioni politiche nazionali e globali.
Se il libro di Armino tesseva, dunque, un quadro di insieme sulle vicende dei partigiani calabresi, oggi con Indagine sulla morte di un partigiano. La verità sul comandante Facio (Bollati Boringhieri, 2023, euro 15) l’autore approfondisce una pagina gloriosa e misconosciuta su un grande partigiano italiano. Facio era il nome di battaglia di Dante Castellucci, nato il 6 agosto 1920 da Francesco e Maria Concetta a Sant’Agata di Esaro, paesino in provincia di Cosenza. Giovanissimo emigra in Francia seguendo la famiglia, dopo che il padre, uomo dal carattere difficile, aveva schiaffeggiato il sindaco del paese. La famiglia Castellucci si stanzia lungo il confine con il Belgio in un peregrinare fatto di lavori precari e segnato dalla nascita di altri tre figli oltre Clementina e Dante. Egli frequenta corsi di avviamento professionale e lavora in miniera. Tuttavia ha una grande passione che coltiva da autodidatta per la musica, l’arte e la letteratura. Alla vigilia della guerra i Castellucci decidono di ritornare in Calabria. In una memoria di quel tempo è così descritto da Pietro, un giovane amico santagatese: “Un tipo! Bassino, biondiccio, asciutto, robusto. Un viso disteso, buono, una bocca disposta continuamente al sorriso e gli occhi luminosi, intelligenti.” Dante parla un italiano incerto, frammisto di francese e dialetto calabrese. Allo scoppio della guerra il giovane Castellucci viene chiamato alle armi. La prima svolta nella sua vita arriva durante una licenza alla fine del ’40, quando a Sant’Agata incontra Otello Sarzi, un emiliano al confino, giovane militante antifascista, componente di una nota famiglia di attori e burattinai, che avrà su di lui una grande influenza. Inviato sul fronte russo, alla fine del 1942 resta ferito nella seconda battaglia del Don e viene rimpatriato per essere ricoverato in ospedale. Durante la convalescenza raggiunge i Sarzi nei pressi di Modena, dove stringe sempre di più legami amicali e politici. “L’esperienza militare e il fronte russo, in particolare, ne hanno fatto un fiero antifascista.” Tramite Lucia, sorella di Otello, conosce la famiglia Cervi, composta da Alcide, Genoeffa e dai loro numerosi figli, a cui si lega per combattere in armi il fascismo. Caso forse unico nella storia della guerra di Liberazione, ancor prima della caduta del fascismo e dell’armistizio, il 22 giugno del 1943, Dante assalta con Otello e altri compagni il poligono militare di Guastalla per impossessarsi di armi e munizioni. Dopo l’8 settembre numerose sono le azioni che vedono protagonisti il gruppo dei Cervi. Dalla loro cascina ai Campi Rossi muovono continue incursioni contro fascisti e nazisti. I Cervi, per la loro impulsività nelle azioni e refrattarietà alla disciplina di partito, non sono visti di buon occhio dai vertici della federazione comunista di Reggio Emilia, che li considera inaffidabili e pericolosi per gli altri compagni, pur ritenendoli dei grandi combattenti. L’isolamento a cui sono spinti porta il 25 novembre ’43 alla cattura ai Campi Rossi di Dante Castellucci, di un piccolo gruppo di militari alleati e dei sette figli di Alcide Cervi. Fingendosi un soldato francese, Dante riesce a trovare il modo di scappare, mentre i Cervi verranno fucilati un mese più tardi. La sua fuga induce altri partigiani a pensarlo una spia. Rifugiatosi sui monti dell’Appennino tra la Lunigiana e il Parmense diventa “Facio” e si distingue presto per la determinazione con cui partecipa alle azioni militari, tanto da assumere ben presto il comando della banda “Picelli”. C’è un episodio divenuto leggendario che lo ricorda. Il 18 marzo del 1944 insieme ad altri otto compagni è sorpreso in un rifugio da un centinaio di nazi-fascisti. Facio e i suoi resistono per oltre ventiquattro ore finché gli assedianti si ritirano dopo aver lasciato sul terreno sedici morti e trentasei feriti. La sua fama di uomo generoso – si poneva sempre per ultimo quando venivano distribuiti vitto, vestiario, sigarette – ed esempio di un comunismo egualitario e umanitario, lo rendono sempre più popolare tra gli abitanti della Lunigiana. Tutto si interrompe, però, il 21 luglio 1944. Discostandosi in alcuni punti dall’importante libro di Carlo Spartaco Capogreco, Il piombo e l’argento. La vera storia del partigiano Facio (Donzelli 2007) e avvalendosi di nuove testimonianze e fonti, Armino fa emergere una nuova versione sulla morte di Facio, ben più squallida di quanto si possa pensare. Le cause del suo assassinio sono da individuare, sul modello delle purghe staliniane, non solo nelle divergenze politiche tra partigiani, ma anche nell’invidia e nella brama di potere, in particolare del gruppo del pontremolese Antonio “Salvatore” Cabrelli, che mal sopporta la nomea del calabrese ma anche la sua insofferenza alla disciplina. Facio cade in un agguato preparato dal comando partigiano della zona. Accusato di sottrazione di un fusto di munizioni paracadutato dagli Alleati, si presenta nel paesino di Adelano per una cena di chiarimento e riconciliazione ma viene catturato e, sottoposto a processo-farsa, qualche ora dopo fucilato. La versione ufficiale della morte – nel 1962 gli fu assegnata la medaglia d’argento al valor militare alla memoria – invece dichiarava: “Scoperto dal nemico, si difendeva strenuamente; sopraffatto e avendo rifiutato di arrendersi, veniva ucciso sul posto”. Era la foglia di fico che nascondeva le ragioni vere della sua morte. Armino le spiega col fatto che il PCI, temendo di perdere il controllo della zona al confine fra Liguria, Toscana e Emilia a vantaggio della colonna di Giustizia e Libertà e delle altre formazioni autonome e cattoliche che operavano sull’Appennino, aveva ordinato senza indugio di “sbarazzarsi dell’ostacolo costituito da Facio.” Laura Seghettini, sua compagna di lotta e vita (https://www.youtube.com/watch?v=KRH9hx3Y0cs), spiegherà la rassegnazione con cui Dante andò a morire con il fatto che i suoi vice-comandanti lo avevano tradito e che nessuno dei suoi aveva mosso un dito per tentarne il rilascio o vendicarne la morte: “Di cento e più uomini che fanno il suo battaglione soltanto una dozzina protesteranno allontanandosi da quei luoghi.” Nel 2007, dopo il libro di Capogreco, un gruppo di storici (tra cui Claudio Pavone e Giovanni De Luna) hanno inviato una petizione al Presidente della Repubblica affinché a Dante “Facio” Castellucci venisse assegnata – la medaglia d’oro alla memoria invece della precedente medaglia d’argento. Noi attendiamo. Probabilmente Facio, nome omen dal latino “facere” – non avrebbe atteso. Questa sua ansia di agire, il suo carattere esuberante e una profonda moralità lo avevano posto in contrasto con la linea stalinista del PCI segnandone la fine. Alla madre aveva scritto: “Soffro di non poter vedere il dopo guerra, la ricostruzione per la quale ho tanto lavorato.”