Romanzo di Annamaria Zizza, Marlin editore
E’ molto difficile raccontare un romanzo, forse è anche sbagliato farlo perché per raccontare un romanzo ci vorrebbe un altro narratore e allora sarebbe operazione inutile. Ma del secondo romanzo di Annamaria Zizza ci sembra giusto dire qualcosa, poco, sulla trama e descrivere, invece, l’originalità e il pregio di una narrazione storica dai tratti avvincenti come un romanzo giallo, accattivanti come un fantasy, appassionanti come un racconto erotico, affascinanti come un epico affresco paesaggistico, poetici come il racconto di tante anime che si incontrano e si mescolano.
La penna magica della Zizza ci ha portato nell’Antico Egitto della XVIII dinastia e in parallelo nel XX secolo, esattamente nel 1922, anno della scoperta della tomba di Tutankhamon, con il primo romanzo, Lo scriba e il faraone, uscito per i tipi di Algra nel 2021.
Adesso, a due anni di distanza, ci riporta in quel mondo e da lì ci conduce verso l’antico regno -che alcuni storici definiscono impero- degli Ittiti con il loro gran Re Suppiluliuma I.
Se il primo romanzo è costruito, tecnicamente, come un insieme di scatole cinesi, questo nasce da una di quelle scatole che va a comporre un altro grande contenitore di storie, se possibile, anche più intriganti.
Nella Regina di Tebe troviamo, infatti, una folla di personaggi -alcuni minori, altri in crescita per importanza- che si mescolano con quelli che erano stati i protagonisti del primo: lo scriba-medico Menthuotep, il generale Horemeb, il visir Ay e soprattutto lei, Ankhesenamon, la regina di Tebe, la bellissima e infelice moglie del faraone Tutankhamon, morto giovanissimo, insieme ai personaggi del mondo ittita meno conosciuto di quello egizio, e ancora più misterioso.
Due popoli, due mondi che nella storia si sono scontrati per il dominio delle terre più ricche e floride. Popoli nemici, potenti, padroni di terre culle di civiltà.
Alcune fonti ci parlano di una lettera scritta dopo la morte del Faraone Tutankhamon (avvenuta nel 1327 a.C), dalla giovane vedova Ankhesenamon, la quale, forse memore della tentata rivoluzione del padre Akhenaton -il quale aveva cercato di portare l’Egitto verso un’era di pace e un nuovo culto religioso- sognava un avvenire senza più conflitti, soprattutto coi rivali di sempre, gli Ittiti.
“La regina scrisse al sovrano ittita per chiedergli aiuto: Mio marito è morto e io non ho figli. Ma si dice che tu abbia molti figli. Potresti darmi uno dei tuoi figli ed egli diventerà mio marito. Non sceglierei mai uno dei miei servitori come marito.” (Joshua J. Mark)
Questo lo spunto da cui è partita la fantasia della scrittrice per raccontarci una storia antica, molto antica, popolata di principi, re, principesse, visir, guerrieri, medici, schiavi e ribelli che compaiono e si muovono in un mondo magico, in un affresco raccontato con tutti i colori di una tavolozza alimentata dall’immaginazione coltissima della Zizza. I fiumi, i deserti, le antiche città, le dimore regali e le misere case, le paludi, i cieli stellati, gli accampamenti, tutti gli scenari sono descritti con la perizia di una visionaria che ha studiato e si è documentata tantissimo (come per il primo romanzo), ma ci restituisce un’operazione non pedante, ma potente.
Il libro, dove il tempo della storia (circa sei mesi del 1323 a.C.) è minore rispetto al tempo del racconto, è diviso in tre parti a loro volta suddivise in capitoli che portano una data, con una piccola rubrica non di sintesi ma di commento: massime, proverbi, riflessioni che hanno a che fare col singolo motivo o personaggio raccontato, uno spunto di meditazione per il lettore.
Lo stile della scrittura si innesta sulla scia del primo romanzo rispetto al quale questo non rappresenta una continuazione, ma è decisamente indipendente. Un taglio stilistico fluido, dove le parti dialogate creano un effetto drammaturgico di impatto e le lunghe parti narrative tengono il lettore avvinto alla pagina che è anche fitta di misteri e colpi di scena. In tutto questo lunghi inserti descrittivi, come piccoli idilli, fanno da scenario a tutta la vicenda.
I personaggi sono quasi tutti tratti dalla storia ma sono trasformati in figure umane coi loro sentimenti messi in risalto da un’indagine psicologica che li rende moderni, a noi vicini.
In realtà il titolo ci trae in inganno perché la vera protagonista non è soltanto la Regina. Spicca, anche qui come nel primo romanzo, il personaggio dello scriba Menthuotep, nato dalla fantasia della scrittrice, medico, fedele amico, consigliere, anima pura e onesta in un mondo di congiure e falsità.
Il generale Horemeb e il visir Ay, sono il vero potere, la ragion di stato, ma anch’essi hanno le loro debolezze, e i loro amori.
Il re Ittita e i suoi figli, la necessità di un impero in crisi, la loro forza militare che si basa su un segreto centrale nel racconto, come lo è stato nella storia dell’umanità: la temperatura alla quale fonde il ferro.
E poi una serie di personaggi femminili unici ognuno per le sue caratteristiche: la regina Ankhesenamon, la principessa Baketamon, la moglie di Suppiluliuma, Malnigal, (la straniera, babilonese), dotata di arti magiche e seduttive, per finire con una creatura ribelle ma fragile, ingenua ma eroica, Miriam, alla quale è affidata una possibile evoluzione del racconto.
Le regine, in questo romanzo, sono in realtà tante, perché sono tutte regine nel cuore di un uomo che le ama, o ne è sedotto, o ne è affascinato.
Per questo la lettura de La regina di Tebe può essere un momento di ricreazione della mente e dello spirito, come ha riconosciuto anche Dacia Maraini che ha scritto un bel commento nella quarta di copertina.