“Andy Warhol era un coatto”. Omaggio citazionista a Tommaso Labranca, il Flaiano del trash
“Andy Warhol era un coatto”. Omaggio citazionista a Tommaso Labranca, il Flaiano del trash
a cura di Pierluigi Pedretti
«Il presupposto che sta alla base di tutta la teoria del trash è questo:
vi sono creatori originali e vi sono loro emulatori
dagli esiti più o meno riusciti»
Tommaso Labranca
«Andy Wharol mi sta molto simpatico. Cerco di leggere tutto ciò che lo riguarda con la stessa passione con cui cerco di evitare ogni esposizione di sue opere. Un tempo non era così: nel 1989, per esempio, andare a visitare la mostra Le cento opere di Andy Warhol fu per me d’obbligo come un pellegrinaggio al Divino Amore. Ma nonostante l’equivalenza nella devozione al Palazzo della Permanente di Milano il miracolo non si verificò. Cento opere: pensavo di dover camminare per ore attraverso sale e sale. Mi ero anche portato i panini avvolti nella stagnola. E invece la mostra era concentrata in un unico stanzone tutto diaccio e umido. Fu in quell’occasione che iniziai a detestare le mostre su Wahrol. Mi aggiravo per la sala e mi sentivo inappagato. Anche appoggiando il naso contro il vetro che proteggeva una Marilyn non provavo alcuna impressione. Sfiorai fugacemente e di nascosto dai custodi la superficie serigrafata di un Mao. Ancora nulla. Lo stesso brivido-zero che provo appoggiandomi, in metropolitana, a un manifesto della Philips sapendo di poterlo ritrovare identico in tutte le stazioni, da Molino Dorino a Sesto F.S. Rifeci un’altra volta il giro dell’esposizione, tanto per dare un senso alle 5.000 del biglietto, e mi resi conto di una cosa: quasi rovinato dagli anni di scuola e da certi atteggiamenti accademici, tra quei quadri colorati simili alle pubblicità di tinte per capelli nei coiffeurs pour dames, io cercavo l’Artista aulico e non la sua vera essenza. Insomma, volevo trovare i quadri e convincermi a ogni costo che quelle non erano pubblicità di tinte per capelli da coiffeurs pour dames. Per fortuna mi salvai in tempo. Lanciai una rapida maledizione all’Assessorato alla Cultura del Comune di Milano che aveva rinchiuso la forza pop in un ambiente asettico e prestigioso e capii che in Warolh (ma dove va l’h?), al di là di tutte le pose, cuore e corpo coincidevano. Mi resi soprattutto conto di quanto, dentro e fuori, Wharol fosse meravigliosamente coatto (sostituire le ultime sei lettere con maranzo se si è a Lodi, tamarro se si è a Milano e dasai se si è a Tokio). Il suo cognome per noi due volte esotico (il ceco Warhola americanizzato in Warhol) non nascondeva che una consistenza spirituale da apprendista edile bergamasco. Checché ne dicano i non-revisionisti, Andy non era figlio di Duchamp. Hwarol era fratello di Eros Ramazzotti, del quale condivideva, per fortuna, l’atteggiamento anti-intellettualistico. La Weltanschauung di Warolh era la stessa dei seguaci del primo Jovanotti, riconducibile alla formula lavoro-paga-discoteca-sesso. Certo il lavoro di AW oggi è esposto nei musei, la paga era scritta con una $ seguita da numeri a molti zeri, la discoteca era l’esclusivo Studio 54 dei tempi d’oro e cambiava specularmente l’oggetto del sesso. Ma la filosofia di base era quella. Come doveva godere il nostro artista pop quando si patinava (diceva proprio così) e arrivava in qualche posto con la Limousine presa in affitto, in compagnia di Debbie Harris o di Grace Jones! Esattamente come gode il coatto celebrato dagli 883 in Sei un mito che , cosparso di deodorante musk acquistato alla Coop, arriva con i tappetini nuovi e l’arbre magique nella Golf, al fianco di una commessa ben zinnuta e con le calze a rete. Insomma Andrea era un provincialotto, tale e quale il suo concittadino Vudi Alen e i giornalisti dei quotidiani di NY, per i quali il resto del mondo deve essere fantascienza. Ripensandoci, forse Andy era ancora meno di un coatto. Per esempio, viveva in una zona ben determinata dell’urbanistica newvorchese dalla quale usciva poco volentieri. Aveva notizie frammentarie di ciò che avveniva all’estero. Almeno i coatti nostrani d’estate vanno in Grecia o a Ibiza. Uorol parlava solo l’inglese, e anche piuttosto male. Un coatto, al confronto, è quasi un poliglotta: oltre all’italiano e al dialetto locale conosce l’inglese quanto basta per dire Dis is de ritm of de nait e per affrontare disinvoltamente anche le canzoni straniere nei locali karaoke. Allo stesso modo dei coatti, però, Warhol non aveva prospettiva storica, non sapeva con precisione cos’era avvenuto prima di lui. Così, non potendo ispirarsi a un passato storico, si ispirò a un passato di verdura, quello della Campbell’s. Ne derivò un’ingente fornitura di zuppe in scatola, un successo mondiale e numerosi tentativi di imitazione. D’altronde, se date in mano una matita a un coatto credete che vi sforni una Madonna con Bambino? No. Disegnerà un’auto, un personaggio televisivo, una scatola di dadi. Andy partiva dallo stesso livello, ma grazie alla sua profonda conoscenza dell’imbecillità dei critici, decise di fare più soldi possibile con i suoi quadri coatti, la cui ispirazione nasceva nei supermercati e dalla stampa. Ce la fece benissimo perché era un grande. Perché Andy come coatto era comunque un numero uno, una specie di capo banda, quello con l’auto più veloce e il car stereo più potente. Quello “Quello che tutti cercano di imitare. Negli ultimi anni di vita, ci fanno sapere i suoi Diari, Warol (tolgo l’h e non ci penso più) era angustiato dall’AIDS. Proprio come i coatti che vanno in giro col condom nel portafogli. Ma, invece di diventare sieropositivo, Andy divenne Xeroxpositivo, ossia oggetto di infinite imitazioni. Peccato che tutti questi emulatori trascurino il suo aspetto più vero e amabile, quello borgataro. Anzi, insieme a chi gli dedica le mostre, i cataloghi e le analisi storico-artistiche, quegli emulativo falliti fanno di tutto per creargli (e crearsi) un ingiustificato alone di aulicità e internazionalità, intellettualismo e raffinatezza. Una volta ho visto persino una Campbell’s Soup Can usata come illustrazione di copertina per un libro di saggi di Roland Barthes…»
Da: Tommaso Labranca, “Andy Warhol era un coatto. Vivere e capire il trash”, Castelvecchi, 1994.
« Labranca è morto il 29 agosto 2016 nel suo appartamento di Pantigliate, cintura di Milano. Aveva 54 anni. Un paio di giorni prima era uscita sul magazine del «Sole 24 ore» una mia recensione del suo ultimo libro, Vraghinaroda. Viaggio allucinante fra creatori, mediatori e fruitori dell’arte. Ero uno dei primi recensori del libro, se non il primo. Pochissimi lo avevano letto o lo stavano leggendo, pochi lo avrebbero letto dopo la sua morte, perché non era in vendita nelle librerie: se l’era autoprodotto lui, stampandoselo praticamente in casa. Di fatto, il nome della casa editrice, Ventizeronovanta, corrisponde al codice postale di Pantigliate. «Ventizeronovanta – ha scritto Luca Rossi nell’homepage del sito dopo la morte di Labranca – è una microcasa editrice nata nell’ottobre del 2013 da un’idea di Tommaso Labranca e Luca Rossi. È micro per statuto perché ci lavoravamo in due, con l’idea di stampare un numero limitato di libri all’anno in tirature molto ridotte e molto curate». Qualcuno mi aveva detto che era uscito un nuovo libro di Labranca, e io l’avevo comprato sul sito. Una settimana dopo mi era arrivato il pacchetto. Non avevo mai conosciuto Labranca, nonostante fosse uno scrittore che ammiravo, e speravo che questa recensione, elogiativa con alcune riserve, potesse essere la buona occasione: mi aspettavo un’email di ringraziamento o – dato che sapevo bene quanto Labranca fosse suscettibile – di ringraziamento e puntualizzazioni. Quando nel pomeriggio del 30 è arrivata la notizia della sua morte, il «Sole 24 ore» (il quotidiano, non il magazine) mi ha chiesto di scrivere in fretta un necrologio per l’edizione online. Ho fatto qualche domanda in giro, e un’amica giornalista mi ha detto che Labranca si era suicidato.»
da: Claudio Giunta, “Le alternative non esistono. La vita e le opere di Tommaso Labranca”, il Mulino, 2020.
Che ci fosse il bisogno di scrivere un libro come questo (n.d.c.: C. Giunta, “Le alternative non esistono), era chiaro: Labranca era stato dimenticato. Eppure, il suo modo di scrivere, gli era sopravvissuto. È lo stesso Giunta a fare i nomi: Guia Soncini, Enrico Dal Buono, Mattia Carzaniga, Michele Masneri, Andrea Minuz, Guido Vitiello. E naturalmente, aggiungiamo, Claudio Giunta. Tutti eredi, più o meno consapevoli, dello stile di Labranca. Ma che cosa vuol dire essere eredi di Labranca? Scrivere intelligentemente di pop, come faceva lui, vuol dire sapere fare molte cose: liberarsi dei comodi panni del nerd o del censore; superare le trappole tese dalla retorica dell’agiografia o della condanna; ripudiare l’esercizio di stile e la blandizia, riscrivendo, con una punteggiatura diversa, il già letto, il già sentito, il già visto. Tutte caratteristiche, queste, confluite in “Andy Warhol era un coatto” che, come scrive Giunta, è l’esempio di come combinare la conoscenza di un argomento e la capacità di astrazione. Per scrivere intelligentemente di pop – cominciamo col truismo – serve intelligenza. Ma serve anche studio, lavoro sodo, rigorosa acribia nell’osservazione. Insomma, serve un’attitudine ben più da scienziato che da giocoliere delle parole. L’ultima somiglianza tra Labranca e Kant – mettendo da parte il paragone – era proprio questa: un’indefessa dedizione alla materia.»
da: “Pangea. Rivista avventuriera di cultura & idee”, 3 Marzo 2021.