“A perdifiato”: in bici con Alfonsina, la “Regina della pedivella” per Palco Off

“A perdifiato”: in bici con Alfonsina, la “Regina della pedivella” per Palco Off

«Ma dove vai bellezza in bicicletta,

così di fretta pedalando con ardor?

Le gambe snelle tornite e belle

m’hanno già messo la passione dentro al cuor!»

Bellezze in bicicletta

Ah, la vita, questa tappa infinita. Ancora più dura se sui pedali c’è una donna. Una donna vera, quella che “A perdifiato” – secondo appuntamento di Palco Off di Catania – ha presentato sulla scena di Zo, il monologo ispirato alla vita di Alfonsina Morini (1891-1964) celeberrima ciclista italiana, prima donna a competere in gare maschili. Ce la raccontano lungo l’ora di monologo incalzante, vivacissimo, le parole i gesti, la mimica di Michele Vargiu, diretto da Laura Garau. Una vita attraversata dalla passione assoluta per la bicicletta, una esistenza capace di sfidare la povertà, i pregiudizi e l’idea che la stessa bicicletta, addirittura – a dirla con Cesare Lombroso – “ha assunto la straordinaria importanza sia come causa che come strumento del crimine.”  Eppure Alfonsina nata e cresciuta nella miseria della bassa modenese, un destino di fame e un lavoro già deciso di sarta, rompe tutti gli schemi e giovanissima monta in bici per le consegne, quasi una rider ante-litteram, sfrecciando per le strade polverose del modenese dove le gesta e l’attività di Antonio Pezzoli, ciclista, costituiscono per lei un modello.

Quello con la bici – un nome di femmina e un cuore di ferro – sarà amore eterno. Un amore vissuto dapprima clandestinamente, su quella due ruote quasi rottamata che il padre acquista dal medico condotto del paese e con la quale Alfonsina, appena quattordicenne, fingendo di recarsi a messa, si iscrive ad alcune competizioni locali. Travestita da maschio batte i maschi: e nelle condizioni della zona in cui imperversavano malaria e pellagra, il premio di un maialino, ha davvero del miracoloso. Eppure la famiglia non capisce: in fondo si tratta di braccianti analfabeti che vivono in un ambiente duro, spietato per certi versi. Alfonsina capisce che per continuare a correre deve andare via. A ventiquattro anni – con la Grande guerra alle porte – sposa Luigi Strada (non sarà l’unico marito) che diventa pure il suo manager. Regalo di nozze? Ovviamente una bicicletta da corsa!! Poi giù “a perdifiato”, appunto. Giro di Lombardia, 1917: Alfonsina con il taglia il traguardo al Trotter di Milano un’ora e mezza dopo il vincitore, ma ce l’ha fatta! Solo un anno dopo sarà ventunesima. La sua carriera sportiva è inarrestabile, la rivalità sportiva con la Carignano l’altra leggenda del ciclismo italiano, riempie le pagine dei quotidiani sportivi, la sua popolarità è enorme: lei la ciclista contadina è più osannata dei colleghi maschi, il pubblico assiepa festante le strade per vederla sfrecciare, diventa un esempio per altre donne. Il Giro d’Italia del ‘24 la consacra: dei novanta alla partenza solo trenta arrivano a Milano e tra questi c’è Alfonsina, ormai una star. Si presta pure al Circo, gira il mondo, è ricevuta pure dallo Zar. Nel 1956, a 65 anni, corre la sua ultima gara, per veterani, vincendola ovviamente! Morirà tre anni dopo in sella alla sua Guzzi 500 che aveva preso il posto della sua amata bicicletta. Al di là del valore atletico di Alfonsina – la “regina della pedivella” – nel 1911 aveva pure stabilito il record mondiale di velocità femminile – la sua vicenda diventa paradigmatica di un riscatto personale in un momento della nostra storia in cui la donna è pensata come angelo del focolare, fisicamente inferiore e votata ad una vita dimessa tra le mura domestiche. Alfonsina prende in mano la sua vita e decide: «Sono una donna, è vero. E può darsi che non sia molto estetica e graziosa – aveva dichiarato lei stessa in una intervista al Guerin Sportivo – una donna che corre in bicicletta. Vede come sono ridotta? Non sono mai stata bella; ora sono… un mostro. Ma che dovevo fare? La puttana? Ho un marito al manicomio che devo aiutare; ho una bimba al collegio che mi costa 10 lire al giorno. Ad Aquila avevo raggranellato 500 lire che spedii subito e che mi servirono per mettere a posto tante cose. Ho le gambe buone, i pubblici di tutta Italia (specie le donne e le madri) mi trattano con entusiasmo. Non sono pentita. Ho avuto delle amarezze, qualcuno mi ha schernita; ma io sono soddisfatta e so di avere fatto bene.» La storia di Alfonsina fa parte di un trittico teatrale che Michele Vargiu e Laura Garau hanno dedicato allo sport. Tre spettacoli di narrazione teatrale per analizzare uomini e donne che si sono trovati a vivere in un contesto storico ostile: “Der Boxer – ballata per Johann Trollmann”, il pugile che non potè rappresentare la Germania ai giochi olimpici perché di etnia sinti; “Perdifiato – l’incredibile vita di Alfonsina Strada” e “Le Fuorigioco” dedicata alla prima squadra femminile italiana di calcio. Non è certo la prima volta che l’arte si misura con lo sport come metafora della vita: basterebbe ricordare il monologo “Da grande volevo fare il corridore ciclistico”, dell’indimenticato Giuseppe Mazzone, che ne ragionava tra lampi d’ironia, pessimismi cosmici e voli auto-consolatori e, per la pagina scritta, il “daimon” che Pierluigi Pedretti ci ha offerto – tra considerazioni antropologiche, storiche e filosofiche lungo la sua Calabria – a cavalcioni del suo delizioso volumetto “Un demone in bicicletta” (Le Farfalle edizioni) . Ma che diavolaccio, quell’Alfonsina!

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