Al teatro del Canovaccio I Moschettieri di Roberta Amato, per la regia di Nicola Alberto Orofino, con Egle Doria, Gianmarco Arcadipane, Luigi Nicotra e Vincenzo Ricca, produzione teatrale Associazione culturale Madè, aiuto regia Gabriella Caltabiano, scene e costumi Vincenzo la Mendola, sarta Grazia Cassetti
Dolorosa Catania “con un piede nella fossa l’altro immerso nel sogno”.
Un ritratto di questa città, violenta, degradata, falsa, spregiudicata, feroce, volgare, cinica, perduta ci ha consegnato Roberta Amato ideando lo spettacolo I Moschettieri, andato in scena al Teatro del Canovaccio in questo fine settimana di metà novembre.
La Amato ha dato corpo alla sua amata/odiata città attraverso tre personaggi, Moncada, Bummacaro e Nitta (i catanesi riconosceranno subito il nome dei grandi vialoni del quartiere Librino) che appaiono rinchiusi in una stanza-bunker e sono «tre uomini immaginati nel loro quotidiano, a cui ho dato loro dei nomi. Un corpo. Un linguaggio. Un carattere. Poi un cuore. Un’anima. Una storia, da raccontare. Senza giudizio. Senza puntare il dito. (…) Una causa persa. Una Catania marcia e lercia, che nessuno vuol salvare. Giudicare, quello sì.»
Le parole della stessa Amato ci aiutano a capire il profondo senso della sua ispirazione in questo testo nel 2020.
I Moschettieri sono amici inseparabili, legati non soltanto da un sentimento o da lunghissima frequentazione, ma dalla stessa inesorabile condanna a essere manovalanza della delinquenza votati “al sacro valore dello scippo, della santa pratica del pizzo, della virtuosa attività della rapina” (note di regia).
La loro giornata comincia, davanti agli occhi dello spettatore, tardi e con gli effetti di una terribile sbornia. Fanno un resoconto delle loro “gesta” nel malaffare, a servizio della loro Signora, la regina dei quatteri che li comanda e pretende reverenza. Hanno le loro storie personali, le loro anime strappate, un passato di miseria e un’infanzia devastata dalla povertà, non soltanto economica. Un forte desiderio di riscatto e di rivincita verso quella vita che li ha condannati già alla nascita, “ a munnizza non si scamina, a munnizza si jetta. Ju munnizza non ni scaminu chiù” Uno di loro, Nitti, rimpiange quei momenti, anche nella casa fredda e nella stanza in cui si dormiva tutti accampati con gli animali e il padre carrozziere che tornava a casa “sempri niuru”. Si ricorda, con struggente nostalgia, di quando era povero e felice e , per questo, sogna di scappare, di abbandonare quella vita ed uscire da una prigione fatta di ricatti e schiavitù. Lo avvisano gli altri due, gli ricordano che “tu sai troppi cosi, se nesci t’ammazzanu subitu”, ma Nitti ha incontrato una ragazza, diversa, pura e progetta una vita con lei.
La conseguenza della sua scelta sarà terribile, andrà oltre il codice etico dei mafiosi, porterà Moncada e Bummacaro a decretare una condanna atroce per la ragazza pur di mantenere inalterato il loro legame, perché sono Moschettieri, “semu tri… semu un mostru a tri testi”.
Il testo di Roberta Amato è una costruzione narrativa fantasmagorica. Colpisce il pubblico con una raffica di riferimenti linguisticamente coloriti con un catanese strettissimo, denso di turpiloquio e fortemente caratterizzato da un’ attenta osservazione delle dinamiche della città, popolari e non.
C’è una posizione neorealista che coinvolge come una mitragliatrice l’affabulazione dei personaggi in scena e si arricchisce delle scelte registiche di Nicola Alberto Orofino. Nel foyer del teatro la regina dei quatteri, fasciata in un completo animalier, calze a rete e stivaloni, accoglie gli spettatori contando soldi, tanti soldi, frutto di rapine, scippi, scassi, sfruttamento della prostituzione, gioco d’azzardo, pizzo, ricatti, spaccio, vendita di armi…. Interpretata da Egle Doria, questa donna cammina con passo sicuro e la prepotenza del suo ruolo, sembra sedurre, come nei lacci della seduzione del male, appassionata, ha occhi scuri e penetranti come carboni dell’Inferno. Ma l’inferno vero è quello che vivono i tre uomini sotto i suoi ordini. Sono uomini “vinti” che l’autrice mette in scena con un percorso che scende nelle profondità dell’anima. Si confessano, in tre brevi monologhi che sono stralci di poesia che commuovono dopo la comicità sarcastica dei primi momenti.
Il binomio Amato-Orofino, già collaudato, ha confezionato un’operazione scenica acuta come una lama, potente come un fuoco d’artificio -di quelli che si sparano in piazza Lanza per la scarcerazione di qualche boss- cinica fino in fondo e straniante, anche grazie alle scelte musicali -lunghi passaggi di sonate barocche prime e un omaggio a Battiato sul finale- che sono la cifra specifica delle regie di Orofino.
Le colonne che reggono questo edificio di perizia teatrale sono gli attori in scena: Gianmarco Arcadipane, Luigi Nicotra e Vincenzo Ricca nel ruolo dei tre Moschettieri e la regina Egle Doria. Sono scoppiettanti, sono atleti, sono maschere, sono burattini mossi da fili ma sono anche anime denudate, prive di libertà e di speranza, capaci di emozionare. Uno spaccato di vita vera, riconoscibile da qualsiasi catanese, ma che riguarda, in fondo, tante città italiane. Una denuncia paradossalmente rassegnata che la Amato coglie e fotografa con il linguaggio della verità autentica, registrando dialoghi e situazioni quotidiane e affatto folkloristiche. Si ride tanto e si rabbrividisce sul finale pensando a questa dolorosa Catania, “con un piede nella fossa, l’altro nel sogno”