LA MITE da F. M. Dostoevskij

Al Teatro del Canovaccio, per la rassegna Presenze. Drammaturgia e adattamento di Valeria La Bua

con Giovanni Arezzo e Alessandra Pandolfini, regia Toscano / La Bua

una coproduzione Teras Teatro e Teatro del Canovaccio

Quando l’autore russo –vorrei dire l’Autore Russo, perché decisamente si tratta del più grande, del più profondo, del più intimo e solerte degli autori russi, di uno dei più grandi in assoluto, ed è inutile e superfluo dirlo- cominciò a scrivere il racconto, nell’autunno del 1876,  a Mosca si era verificata una consistente serie di suicidi.

In particolare, uno di questi aveva colpito la sensibilità dello scrittore: quello di una giovane donna, venuta da Pietroburgo, sola a Mosca, che si era lanciata dall’abbaino della sua abitazione stringendo al petto un’ icona della Madonna

In poche parole, la trama del racconto che ne ricaverà, appunto La mite.

Perché questa fanciulla compie una scelta così estrema, perché la chiama mite? Per incapacità di ricambiare l’amore, per senso di colpa? Per sfuggire ad un uomo che sente come estraneo?

Dostoevskij sceglie, per raccontare la tristissima vicenda, un punto di vista e una struttura narrativa inusuale. Quella dell’uomo che aveva sposato la fanciulla, un usuraio che le aveva garantito una vita agiata ma che lei non amava e aveva tradito. Il racconto ha la forma del soliloquio, di un monologo nel quale “un uomo cerca di fare il punto dei propri pensieri” (Nota dell’autore al testo) e che, quindi, si risolve in una successione di frammenti che si smentiscono a vicenda, in un percorso a spirale che punta alla rivelazione della verità sui fatti, una verità sfuggente, che si nega e si capovolge ogni volta che sembra essersi chiarita.

La voce narrante risulta così quella di un uomo ridicolo, che afferma la sua verità, di fronte al cadavere della giovane moglie, in aperta opposizione alla verità altrui, quella ufficiale, restando, così, in totale solitudine.

Sembra, per questo, difficile, per il lettore, comprendere chi sia la reale vittima: se la mite, in realtà raffigurata come dotata di una remissività caparbia, o il marito usuraio, colpevole di aver voluto cambiarla, aver voluto farne una creatura propria e aver voluto, con lei e attraverso di lei, scontare colpe sue pregresse e mai superate.

Questa prospettiva di ricerca della verità e di se stesso è stata il fulcro della rappresentazione a cui abbiamo assistito, nell’adattamento di Valeria La Bua, che ha individuato nell’usuraio il ruolo inconfutabile del carnefice. Con questa chiave di lettura è stato rivisitato il testo  e poi  affidato a due interpreti, unici e originali, ciascuno a suo modo. Alessandra Pandolfini è la dolce ragazza, orfana, la mite appunto, in silenzio per tutta la piéce (fuorché un sola battuta e un breve canto), di un silenzio eloquente più di mille parole, coi suoi sguardi penetranti e smarriti, ma anche determinati e profondi.

Giovanni Arezzo -che in questa stagione teatrale sta dimostrando al pubblico catanese un momento di grazia totale- dà voce al “carnefice”, e si immerge nei labirinti oscuri della sua mente, con uno sconcertante soliloquio connotato di ricordi e rimorsi.

Ne emerge una pièce che la sapiente regia della coppia Toscano-La Bua ha reso appassionante, senza pietà  ma la lucida nella sua acuta analisi dei fatti giustapposti uno dietro l’altro per dare fondamento alla tesi della vittima che diventa colpevole e del colpevole che si fa vittima.

In un palcoscenico piccolo, un uomo solo, prima in canottiera, come un gigante davanti al pubblico, poi avvolto in un pesante pastrano, si muove attorno a pochi elementi scenici,  e spinge la sua confessione, che non avrà assoluzione, avanti e in dietro, sui tempi della narrazione che insegue il ricordo, il passato e il presente.

Accanto a lui, quasi a dar corpo alle sue parole, la figura esile e bella nella purezza di un volto senza trucco e di un abitino color pervinca come il manto della Madonna, di Alessandra Pandolfini che si muove sull’onda delle parole del racconto-confessione di lui, come in fotogrammi di un film muto.

Sappiamo che Dostoevskij aveva una vera repulsione verso ogni tipo di spiegazione logica, psicologica o sociologica degli avvenimenti che si verificano fuori e dentro l’animo umano. Pertanto le domande, tante nel testo, resteranno senza risposta, mentre il tempo passa inesorabile.

L’unica risposta che lo scrittore russo ci lascia è l’amara considerazione che “gli uomini sono soli sulla terra”, come in tutti i suoi romanzi; qui la solitudine dell’uomo si è fatta titanica nell’interpretazione di un attore che, commosso sul finale, con le lacrime vere, guarda in faccia lo spettatore e lo tira dentro la sua solitudine ontologica.

La piccola sala del Teatro, piena con spettatori in piedi, è esplosa in un applauso liberatorio e meritatissimo.

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