Per «Virdimura» di Simona Lo Iacono di Sebastiano Burgaretta
Per «Virdimura» di Simona Lo Iacono di Sebastiano Burgaretta
Virdimura, di Simona Lo Iacono, a me pare un libro speciale, perché segna e caratterizza quello che ai miei occhi si configura come una componente di un duplice filone privilegiato nella narrativa di questa brava narratrice. Da una parte, infatti, nei suoi romanzi, ci troviamo davanti alle figure di donne libere, coraggiose, incomprese, perseguitate anche perché in odore di stregoneria a causa della loro libertà e della loro autonomia di pensiero e di giudizio, personaggi come quelli di Lucia Salvo, Rosalba, Tilde e le loro antenate streghe di Lenzavacche, la tigre di Noto, Anna Maria Ciccone, dall’altra, ora con questo romanzo, davanti alla figura di una donna medico di levatura eccezionale, che va a rendere omaggio storico-memoriale a varie altre donne medico del lontano passato. Donne medico, anch’esse coraggiose, libere e pioniere nel corso dei secoli, specialmente di quelli per tanto tempo definiti bui. Penso alle figure dell’ebrea Bella De Paija1, che nei primi anni del Quattrocento, grazie alla regina Bianca di Navarra, poté esercitare a Mineo la professione medica, che allora era impedita alle donne e in particolare alle donne ebree, a causa di antichi pregiudizi religiosi ed etici circa l’onestà dei medici che non fossero di religione cristiana. In virtù delle credenziali della Regina, Bella De Paija poté lavorare di soccorso bene y en seguridad per la salute de los desvalidos todos2. In Sicilia esperta quasi sicuramente anche lei nell’arte medica fu Mituca Saittuni, filia del medico Micael di Marsala3. Penso anche alle donne che, in virtù del loro potere, si adoperarono in Sicilia, per concedere libertà di professione medica alle donne ebree, come la succitata regina Bianca di Navarra e la marchesa Maria d’Aragona de Marinis, la quale istituì una tassa che servisse a dare lo stipendio a due medici di Avola, Johanni Bernardino Calvo e Pasquali de Bono, affinché questi potessero curare le persone indigenti4. I due medici avolesi giurarono che si sarebbero impegnati a servire tutte le genti di questa Università di entrambi i sessi…senza mai potersi rifiutare e presentarsi sulle strade per più commodità di chi ne avrà bisogno perché ci sono poveri e molti altri che non tengono comodità di mandar a trovarli5. Con questo romanzo la Lo Iacono ci porta nella Catania del XIV secolo, una Catania assai diversa da quella che conosciamo oggi. Dopo i provvedimenti che nel 1310 il re Federico III d’Aragona aveva preso col vietare ai medici ebrei di curare i cristiani, e dopo l’interdetto papale del 1322, che durò quattordici anni, contro il re, quelli furono anni di violenze, di peste, carestie e indigenza diffusa. In tale contesto storico si colloca la vicenda umana e professionale di Virdimura, donna realmente esistita, attorno alla quale la Lo Iacono ha intessuto un romanzo di straordinaria bellezza. Siamo nella seconda metà del Trecento. Virdimura è una donna ebrea, figlia del medico Urìa e moglie di un altro medico di valore, Pasquale de Medico; prima donna ebrea siciliana ufficialmente autorizzata a esercitare l’arte medica e la chirurgia. Le notizie che si hanno di lei sono date da un documento del 1376 scritto su pergamena, che si conserva all’Archivio di Stato di Palermo. A quel tempo le donne ebree ricevevano un’istruzione privata, imparando le terapie, la prescrizione delle ricette, la preparazione e la somministrazione di pozioni, maneggiando coltelli, pinze, aghi e cauteri, con i loro padri o mariti6, proprio come Simona Lo Iacono racconta che sia avvenuto a Virdimura. Costei, infatti, crebbe e si formò alla scuola medica del padre e poi anche del marito, ma soprattutto alla scuola della pietas umana, secondo una concezione della medicina che non disgiunge mai l’anima dal corpo e che include, oltre alle erbe, la conversazione con i poeti, il ballo, la musica, la bellezza7, in ultimo. Per Virdimura e i suoi familiari medici curare i malati era una sorta di dovere religioso, una mitzvà, e ciò senza distinzione di credo politico o di fede religiosa: ebrei, cristiani, musulmani erano tutti ugualmente curati e custoditi da loro, unicamente per il rispetto della dignità umana delle singole persone, per umana solidarietà, per l’impegno di volere farsi carico degli indigenti e dei bisognosi. Questa è la molla di tutta la sua attività di assistenza medica, per la quale volle e ottenne la licentia curandi dalla Commissione di giudici e dottori presieduta dal Dienchelele, cioè il giudice supremo, ebreo, che aveva giurisdizione su tutte le Comunità ebraiche siciliane, il doctor Joseph Abenafia8. Nel prologo la scrittrice mette in bocca a Virdimura, ormai anziana, parole di grande saggezza umana e professionale, con le quali esprime, in grande umiltà, il senso che lei ha dato alla sua vita e l’animus col quale si presenta davanti ai giudici (pp. 9-11). Conclude poi nell’Epilogo al romanzo la Lo Iacono: Nel novembre del 1376 gli augusti doctori e il Dienchelele concessero alla dottoressa Virdimura la licenza a curare. Dopo averla interrogata e avere sondato la sua abilità, la sottoposero a prove pratiche e accertarono che era perita nell’arte medica.Era la prima volta che la “licentia curandi” veniva accordata a una donna. I giudici valutarono la sua abnegazione, la sua preparazione, i suoi studi sull’epidemia di tifo e peste. La dottoressa Virdimura accettò con gratitudine questo riconoscimento, ma pretese che esso fosse rilasciato con una particolare clausola. E cioè che la licenza la autorizzasse soprattutto a curare i più indigenti, i più deboli, i più tralasciati9. La licentia curandi era a quei tempi importantissima, perché allora le donne, come si è detto, imparavano l’arte medica in famiglia e, quando erano brave, non solo come levatrici, attività preponderante per loro, ma anche come curatrici di malattie, rischiavano purtroppo, a causa delle limitazioni e dei pregiudizi verso le donne (C’era stato, si dice, chi qualche secolo prima aveva dubitato che le donne avessero un’anima come gli uomini) di essere perseguitate, incarcerate e accusate di stregoneria, in special modo se particolarmente brave e amate dalla gente, che alle loro cure faceva ricorso. La Lo Iacono, tracciando la figura di Virdimura e l’alone di pregiudizi ricorrenti su di essa, scrive: Virdimura, figlia di Urìa, forse giudaica o forse eretica, magara e strega, che incantava diavoli e pazzi, e che in special modo coi mostri interloquiva e si attardava10. Tantum religio potuit suadere malorum, potremmo con Lucrezio lamentare.
A tanto, per tornare a noi, giungeva il superstizioso pregiudizio sulle donne autorevoli e libere, che per queste loro qualità facevano paura agli uomini, esattamente, ahinoi, come ancora oggi la fanno ai maschi che, incapaci di gestire le loro fragilità relazionali, tagliano la testa al toro col credere di risolvere certi loro problemi di coppia, massacrando non animali ma le loro mogli e le loro fidanzate e compagne. Il fatto che Virdimura potesse o volesse curare i poveri, ha scritto la studiosa Angela Scandaliato, può significare che c’era una domanda terapeutica che i medici cristiani non riuscivano a soddisfare, per cui, nonostante la diffidenza nei confronti degli ebrei le prestazioni di Virdimura venivano richieste a motivo della sua bravura e della sua fama11. E Virdimura, oltre a essere ebrea, era anche donna! Con la sua preparazione pratica e con lo studio, che non smise mai di curare e approfondire, Virdimura convinse i giudici a darle la licentia curandi, un’abilitazione, cioè, a esercitare l’arte medica in ogni città e terra della Sicilia, e mise su un ospedale, in cui, come racconta La Loiacono, tutto ruotava attorno al rispetto della dignità umana e della storia personale dei malati. Cosa, questa, che sortì frutti straordinari di solidarietà umana e di pacifica convivenza civica. Infatti, davanti alla bravura dimostrata, al prestigio e alla fama che Virdimura si guadagnava col suo impegno a favore di indigenti e poveri, la gente tendeva a dimenticare le differenze di religione e le attitudini pregiudizialmente negative12. Forte e perenne la lezione di vita, di etica e di professionalità medica che Virdimura riceve dal padre e della quale fa fecondo tesoro. Ed è il trionfo della pietas umana. Nel testamento Urìa raccomanda alla figlia di “curare gli ammalati a partire dai loro lutti” e dalla storia di tutti. E la stessa Virdimura dichiara ai giudici: Il curare nasce continuamente dalla nostra storia, e nessuno può medicarci se non fosse per il limite del nostro passato…Siamo figli di un racconto. E qui conta forse il peso umano, e quindi anche umanitario, della storia plurimillenaria degli ebrei, storia intrisa di persecuzioni, rovine ricorrenti nel corso dei secoli, con prezzi tragicamente pagati al pregiudizio e alla violenza gratuita, banale e fondamentalmente stupida dei violenti di ogni tempo. Ognuno è figlio della propria storia, cioè del racconto vivo ed esistenziale della propria memoria personale e collettiva, ognuno è la prosecuzione unica e irripetibile, perciò preziosa, del proprio racconto storico-memoriale, tipologicamente lo stesso racconto che ha permesso agli ebrei di non perdersi nel disperdimento diasporico, ma di essere capaci di sopravvivere a tutto e di fare rinascere, alla fine dell’Ottocento, nell’uso quotidiano, la loro lingua, dietro l’intuizione profetica di Elièzer Ben Yehùda13: prima la parola e poi anche la terra, come aveva sei secoli prima di lui capito il nostro Dante Alighieri, padre della lingua italiana ma anche dell’unità politica degli italiani, se ben si guarda alla nostra storia nazionale. Mio padre, ricorda Virdimura, non si preoccupava delle leggi che classificavano le divinità, pensava che Dio arrivasse in soccorso a chiunque (…) Per lui non esistevano distinzioni tra gli uomini, o tra categorie di malati. Chiunque avesse un male, nel sangue o nell’anima, meritava i suoi servizi. Né attendeva che i sofferenti venissero a lui. Ma li precedeva, girovagando per la città14. E ancora: Mio padre diceva che non c’erano solo le piante a fornire le cure. Ma la musica. Il ritmo. Il bagno in mare. La conversazione con i poeti. L’osservazione delle stelle15. Urìa, insomma, le raccomandava di porsi sempre in ascolto del prossimo, di non coltivare pregiudizi e di aiutare il paziente a elaborare il dolore con tutti i mezzi e gli strumenti che la natura e la cultura mettono a disposizione dell’uomo. Il condizionamento dei pregiudizi verso l’ebreo e verso la sua attività complessiva di medico dei corpi e di curatore di anime arriva al punto da scatenare contro di lui la rabbia di molti. Quando Urìa, infatti, riconosce i sintomi dell’epidemia di tifo che si è diffusa a Catania, invece di credergli, la gente, sopraffatta dal pregiudizio nei riguardi del giudiu, accusandolo di abuso della professione medica16 e di ammorbare e rendere l’aria malsana17invece di guarire, gli si scaglia contro, lo cattura e lo porta via, distruggendo la casa-ospedale che egli aveva creato. Per trent’anni Urìa fu costretto a vagare tra Africa e Asia, passando per le Indie, Costantinopoli, Grecia, Persia18. Non per questo egli cambiò mentalità, disposizione d’animo verso il prossimo, modo di relazionarsi con tutti e dappertutto. Deportato come schiavo, aveva curato altri schiavi. Aveva stretto amicizie tra i mendicanti, gli storpi, i bambini, leggiamo a p. 170. E ancora: Pur essendo esule, mio padre non volle mai sentirsi straniero e imparò ad abitare ogni parte del mondo. Casa non era un luogo, per lui era una relazione. E ovunque potesse svilupparla, con Dio, con gli uomini, con la natura, con gli animali, edificava camere invisibili. Stanze dove soffermarsi. Edifici che non avevano mura ma nomi da pronunciare, corpi da soccorrere, da curare19. Portato via Urìa, Virdimura esce dal nascondiglio in cui precipitosamente l’ha messa il padre e si trova davanti la rovina lasciata dagli assalitori, ma non si perde d’animo per questo, anzi, resiliente, riprende il suo lavoro, la sua mitzvah, in spirito di sorellanza, curando malati e donne bisognose. Resiliente, sì, lei che, nomen omen, nel nome porta lo stigma della sua personalità e dei suoi tratti identitari e comportamentali: Virdimura, verde, come la dolcezza vegetale delle piante e delle erbe, e forte, resistente con la solidità di un muro: Urìa padre mi sollevò con le braccia, lasciò che odorassi il verde che macchiava i sassi, l’aria fumosa del vulcano, i fiori che sbocciavano dalla lava. E disse: Eccoti finalmente. Forte come le mura che cingono Catania. Verde come il muschio che affiora dal duro. Sia tu benedetta, figlia amata. Ti chiamerai Virdimura20. Nel 1330 si abbatte sul territorio la carestia, e la gente dalla campagna si riversa in città. Allora Virdimura, memore dell’esperienza precedente vissuta assieme al padre, si rifugia in una grotta, dove ha custodito cibi per i pazienti. Successivamente anche Virdimura viene arrestata con l’accusa di prostituzione e di far passare per ospedale un luogo ritenuto non adatto a curare gli ammalati21.La seconda parte del romanzo, intitolata Pasquale, narra il lavoro che fanno e le vicende che insieme vivono Virdimura e Pasquale, il quale è tornato a Catania a distanza di molti anni dalla separazione, avvenuta quando il giovane aveva seguito il padre, Josef de Medico, la cui opera era stata richiesta in altre parti del regno, e si era dedicato a completare gli studi. Anche per Pasquale, come per Urìa e Virdimura, salvare una vita è una mitzvah, guarire è una mitzvah22, cioè un personale dovere religioso ed etico cui non sottrarsi. I due coniugi, uniti da un forte senso etico-religioso della vita, continuano l’opera di soccorso terapeutico dei poveri e degli emarginati, prodigandosi molto durante la peste scoppiata a Catania nel novembre del 1347, e Pasquale si dimostra particolarmente coraggioso nel soccorrere gli appestati23. La terza parte del libro, intitolata Urìa, a me pare la più bella e suggestiva dell’intera opera, la più alta per densità contenutistica e per aura poetica: mi pare quella che contiene la cifra di tutto il romanzo, che è saldamente basato e sviluppato sull’onda e sulla scia dell’amore sine modo, della tenerezza senza misura, di cui gli uomini e le donne più sensibili e spiritualmente avvertiti sono testimoni e portatori. In essa si dà spazio al racconto della vita di Urìa, chesed, cioè uomo che agisce secondo pietà, alla sua formazione umana e medica al seguito e alla scuola di Josef de Medico, il padre di Pasquale. Scuola d’eccellenza, cui Urìa rimase fedele sempre, rendendole merito e onore, e facendone la cifra chiara e identitaria del suo operato, che fu poi modello insostituibile per la figlia. Uomo senza padroni, lo dipinge la Lo Iacono, di ferreo rigore etico e professionale, refrattario al potere. Camminava per le strade del mondo da uomo libero. Per ricordare a se stesso di non cedere mai ai pregiudizi, teneva una benda legata al braccio. Era rossa come il sangue, con tanti nomi scritti sopra. I nomi dei malati che aveva curato. Li portava sempre con sé. Tutti coloro che avevano avuto un male nel corpo. Li ricordava ogni sera nella preghiera del tramonto. Erano coloro che gli avevano insegnato ad amare la fragilità. Nulla lo turbava, era in pace con se stesso e con la natura, come se l’arte medica fosse più che un mestiere. Piuttosto lo sguardo con cui i vivi si intrattenevano con i morti24. Che scuola quella di Josef! Prima del sonno Urìa gli faceva sempre la stessa domanda: Josef, ma come arriva la felicità? E quello rispondeva: Arriva dopo persecuzioni, terremoti, tradimenti. Arriva se ti consegni agli indifesi25. Un antico proverbio ebraico dice che “la pera non cade lontano dall’albero”. E dagli alberi di Josef e di Urìa non potevano non cadere le pere che sono stati Virdimura e Pasquale. Dopo trent’anni di forzato esilio Urìa torna, col desiderio di realizzare un sogno, di adempiere a un intimo dovere, quello, cioè, di dare la figlia in sposa a Pasquale, come aveva sempre desiderato fare, ma viene colto dalla peste, così come lo stesso Pasquale. Pagine di intensa umanità e di grande lirismo sono quelle che la Lo Iacono dedica, nel capitolo 4 della terza parte del libro, alla morte di peste del padre e del marito, verso i quali moribondi e poi anche morti rivela sentimenti di materna pietas e di tenerezza umana, che lasciano il segno nell’animo del lettore (pp.191-196). Pagine di altissima poesia della vita e della parola che salva ci consegna Simona Lo Iacono negli ultimi capitoli, che sono l’acme di quel climax ascendente avviato sin dalle prime pagine di questa specie di nobile biografia romanzata che è Virdimura Prima di chiudere questo mio intervento, desidero manifestare un po’ del mio pensiero su quest’opera, davvero particolare, di Simona Lo Iacono. Mi hanno fortemente e positivamente impressionato la cura che lei ha dedicato allo sfondo tematico di questa avventura esistenziale, che ruota attorno a Virdimura, e la ricerca, direi meticolosa, acribica, intorno a costumi, tradizioni, abitudini, preghiere e lingua della cultura ebraica. Anche se, devo dire, lei ci aveva già in passato dato un saggio di questa dimensione storico-culturale con riferimento alla nostra Siracusa nel racconto Il cancello, pubblicato nel 2012. Ho apprezzato molto, ma questa non è una novità nei suoi libri, questa specie di inno alla tenacia e alla resilienza delle donne, e alla laicità e all’umiltà coraggiosa e imperturbabile di chi assiste i malati. Infine mi ha intimamente coinvolto e commosso il sentimento di tenerezza umana che permea l’intera opera, della quale esso costituisce la carta d’identità, aperta, cantata e decantata nella musica di un sentire poetico inconfondibile, e ciò fino alle ultime pagine del romanzo in un finale che è degno della profonda spiritualità umana dell’ebreo Giuseppe di Arimatea, così come costui ci è presentato nel Vangelo dell’ebreo Gesù Cristo.
1 Cfr. V. Mulè, Bella De Paija, in AA.VV. Siciliane, a cura di M. Fiume, pp. 119-120.
2 Cfr. S. Burgaretta, La giostra delle apparizioni, Santocono Editore, Rosolini 2021, p. 23.
3 V. Mulè, Op. cit. p. 119; inoltre, M. L. Garaffa, Caratteri topologici dell’insediamento ebraico nella Sicilia occidentale, in AA.VV., Architettura Judaica in Italia, Palermo 1994, pp. 41-46; AA.VV., Italia Judaica. Gli Ebrei in Sicilia sino all’espulsione del 1942, Atti del V Convegno Internazionale, Palermo 1992, Roma 1995, pp. 268-295, cit. pp. 277-278; S. Simonsohn, The Jews in Sicily, Vol. 18, Under the Rule of Aragon and Spain, Leiden-Boston 2010, p. 12324, Idem, Tra Scilla e Cariddi. Storia degli ebrei in Sicilia, Ed. Viella, Roma 2011, p. 523.
4 Cfr. F. Gringeri Pantano, Il Marchesato di Avola nel Cinquecento. I conventi, i feudatari. Santa Maria di Gesù dalla fondazione alla ricostruzione, Officina di Studi Medievali, Palermo 2020, pp. 61 ss e pp.74-76.; inoltre S. Burgaretta, Op. cit. pp. 25-26.
5 F. Gringeri Pantano, Op. cit., p. 75.
6 A. Scandaliato, Virdimura de Medico, in AA.VV., Siciliane, op. cit., p. 116.
7 A. G. Cerra, La dottoressa ebrea che aprì una breccia nel lavoro delle donne, in “la Repubblica”, edizione di Palermo, 11 febbraio 2024, p. 10.
8 A. Scandaliato, Art. cit., p. 116.
9 S. Lo Iacono, Virdimura, Guanda, Milano 2024, p.217.
10 Ivi, p. 86.
11 A. Scandaliato, Art. cit., p. 115.
12 Ivi, p. 116.
13 Cfr. S. Burgaretta, Verbumcaru, Algra Editore, Viagrande 2020, p. 85.
14 S. Lo Iacono, Op. cit., pp. 17-18.
15 Ivi, p. 23.
16 Ivi, p.169.
17 Ivi. pp. 63-64.
18 Ivi, p. 170.
19 Ivi, pp.170-171.
20 Ivi, pp. 24-25.
21 Ivi, pp. 97-98.
22 Ivi, p. 141.
23 Ivi, p. 162 ss.
24 Ivi, pp. 186-187.
25 Ivi, p. 188.