Sotto la corazza un… Mare di umanità. Un’iconica Kate Winslet è «Mare of Easttown» la serie HBO

«E’ un vero macello, al momento…»

Mare of Easttown

Ci dev’essere un tempo del cazzo a Easttown: freddo e grigio come tutte le periferie industriali di quel sogno chiamato America; un ibrido tra comignoli di mattoni rossi, villette a schiera e l’umido che sale dei boschi. E anche lei sembra avere un carattere del cazzo: Mare Sheehan, divorziata, l’ombra del figlio suicida che incombe, un’altra figlia, Siobhan (Angourie Rice), un ex marito appena convolato a nozze (che abita proprio dietro casa sua), un occhio di riguardo per gli alcolici e un lavoro duro e sporco. Perché fare la sergente di polizia in quella piccola comunità tra teppistelli, tossici, piccole e grandi violenze e una ragazza della zona, Katie, scomparsa da un anno, non è certo il massimo della vita e della sua in particolare. Nemmeno per una che è conosciuta come «Lady Hawk», per via di un tiro incredibile in una ormai (troppo) lontana partita di basket, prima dei chili in più, di una madre insopportabilmente distante, apparentemente dedita solo ai suoi Manhattan (un personaggio davvero eccezionale interpretato da una altrettanto singolare Jean Smart) e di tutta una serie di casini in una township del Delaware fin troppo piccola, dove si conoscono tutti, tutti conoscono i segreti di tutti e ogni tanto tutti si detestano simpaticamente.  Ma lei, Mare-Marianne, «una che non è mai stata l’anima della festa» – e lo dice la sua migliore amica – non si fa certo scrupoli a entrare nelle vite degli altri con la delicatezza di un autotreno. E quando anche Erin, una giovanissima ragazza-madre, viene trovata morta sul greto di un fiume le cose diventano per Mare terribilmente più complesse. Non le basta più l’affetto del nipote, il piccolo Drew, né le massime di Mark, il cugino prete, sincero e pieno di dubbi. Non le bastano più nemmeno le birre: Mare è totalmente sopraffatta dal suo passato, dalle tragedie presenti e da una incomprensione da parte della comunità cittadina che si sta pericolosamente trasformando in diffidenza risentita. La miniserie «Mare of Easttown», ideata e diretta da Craig Zobel e sceneggiata da Brad Ingelsby, irrompe sui piccoli schermi con la forza spaventosa della realtà per quella che è: un posto in cui tutti «continuano a sperare di svegliarsi e scoprire che la loro vita è solo un brutto incubo.» La versione italiana (al solito) la rintuzza e la umilia in un generico «Omicidio a Easttown», depotenziando la carica eversiva implicita nella protagonista femminile che distrugge tutti gli stereotipi del ruolo della poliziotta: Kate Winslet è davvero superlativa (tra l’altro, produttrice esecutiva della serie): discinta, stanca, scazzata nei panni di un personaggio che considera «tra i più complessi mai interpretati». E’ stata proprio Kate Winslet – come ha dichiarato lo stesso Ingelsby – a ricreare la figura di Mare in corso di lavorazione: «durante le riprese le ho fatto cambiare i dialoghi: lei conosceva Mare più di me…». Ostinata e caparbia, Mare è una che ragiona di pancia, e ha le idee chiarissime: «ho sempre saputo che avrei fatto la poliziotta. E’ che non mi aspettavo che il resto della mia vita andasse clamorosamente in pezzi». Non le manda a dire; ha dei casi terribili da risolvere – su cui aleggiano forse psicopatici e violentatori – e non può andare per il sottile. Il detective Zeller, mandato dalla Contea ad affiancarla non fa che innervosirla ancora di più anche se il gelido distacco nei confronti di «uno di fuori» si trasformerà in lento avvicinamento. Certo, ogni tanto Mare cerca di avere una vita normale, che so: uscire a cena con qualcuno – magari il professorino appena arrivato in città per tenere un corso di scrittura – magari finirci a letto, rilassarsi: ma è solo per un momento, il suo demone non gli concede tregua e i pezzi della sua vita sono ancora sparpagliati ovunque nonostante qualche timido progresso con la strizzacervelli che la segue. In somma la sua stessa vita sembra oscillare tra un «(good)night, Mare» (gioco di assonanza con nightmare «incubo») e un «merda, Mare!» a seconda della pronuncia del dialetto del Delawere, tra i tanti siparietti comici che punteggiano le sette puntate. Ma c’è un dolore silenzioso che sovrasta tutti gli altri: il dolore per il suicidio del figlio: sempre in agguato, sempre in attesa, sempre spaventoso. «Mare of Easttown» è una «true detective» che non concede nulla alla fiction, alle moine politically correct, alla geremiade di sparatorie e di inseguimenti di tante serie poliziesche e che ce la restituisce, per questo, più genuina, più umana: più vicina.  Attraverso le vicende che si intersecano a Easttown – miserie e tenerezze – alcuni temi emergono chiaramente: la fragilità di una adolescenza mandata allo sbaraglio ed esposta alla violenza di ogni genere; le storie di individui piccoli e spaventati, alle prese con un vissuto che non hanno ancora risolto, la vita di chi si barcamena tra i problemi personali e i casini al lavoro: come tutti insomma. Nella complessa rete di rapporti che li coinvolgono, fino al colpo di scena finale – durissimo e crudele quanto inaspettato ed imprevedibile – brilla però mai spenta la fiamma di una solidarietà riconoscente e genuina, una resilienza – certo più forte e compatta tra i personaggi femminili – grazie alla quale la comunità che sente finalmente di esserlo potrà riuscire a perdonare e a perdonarsi. Perché in fondo, al di la di tutto, «il nostro compito è solo amare».

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