Nel ventre nero della citta: “Una raggiante Catania” di Domenico Trischitta
La scrittura è la città. La scrittura diventa la strada. Lo spessore crudele della cronaca giornaliera, degli avvenimenti senza clamore che implodono nelle nostre vie. Le storie di chi vive male e troppo in fretta, senza colore. Una scrittura in bianco e nero dunque quella del romanzo di Mimmo Trischitta, «Una raggiante Catania» (Excelsior 1881) adesso rieditato da Algra. Con ovvio riferimento al testo dell’omonima canzone di Carmen Consoli, quella di Trischitta rinvia ad una città lontana nel tempo e nell’immaginario, risorta e ancora caduta. “Una raggiante Catania” è una sorta di atipica sonata – scandita in sei movimenti seguiti da un epilogo – Logos, Go, San Berillo Nuovo, San Berillo Nuovo (refrain), Catania, L’abbandono – che esprime uno «stato di necessità» (per citare ancora la cantantessa catanese) che è quello, irrinunciabile per Trischitta, della scrittura: e la citazione dal “Prometeo” di Eschilo dell’incipit vale come una dichiarazione di poetica.
Poiché anche il «silenzio» è dolore, Mimmo Trischitta sceglie il dolore del racconto. L’indicazione non poteva essere più calzante: da una lato l’autore dunque, come l’eroe greco, ne incarna la figura, dall’altro Trischitta, proprio con quella citazione, pare richiamare uno dei suoi libri più amati: «Il male oscuro» di Giuseppe Berto. «Una raggiante Catania» infatti, ne riprende quasi anche la filigrana stilistica: il racconto scorre come una sorta di ininterrotta confessione e lo stile segue il percorso incontenibile del pensiero, travolgendo sul suo percorso e le norme della sintassi e anche la punteggiatura. Una Catania lontana eppure sempre irremdimibilmente uguale (gli anni che sono passati dalla prima edizione sembrano ritorcersi in un continuum atemporale) i vent’anni e passa che il romanzo racconta, dal ‘70 fino alla metà del ‘90, ci restituiscono non la città champagnina e gaudente, provincialmente yuppista che continua a celebrare i suoi mezzi eroi – si tratti di effimeri vip televisivi, falsi cattivi maestri o personalità di spicco della cultura, della politica e (sic) della mafia pure – quanto piuttosto quella in cui pullula l’umanità sommersa che chiede solo e disperatamente di sopravvivere. La scelta dei luoghi è significativa, quasi una cifra ideologica: San Berillo (prima e dopo il suo sventramento), il Passiatore (la luminosa striscia di marciapiede che costeggia la ferrovia e respira il mare), la Catania proletaria e artigiana insomma, tugurio di puppi e di buttane, di scunchiuruti di ogni pasta, la Catania saccheggiata dall’ISTICA e quella che Pippo Fava instancabilmente denunciava dalle pagine del suo giornale: «nera perché fascista. Nera perché mafiosa. Nera perché lavica». Dunque il mito vintage (e fasullo) della Catania vantata e cantata come la Milano del Sud e la realtà concreta della rivoluzione musicale che si chiamava Denovo, Carmen Consoli, Franco Battiato cortocircuitano sullo spessore crudele della cronaca giornaliera, degli avvenimenti senza clamore che implodono nelle vite di una umanità segnata indelebilmente dal milieu e che non riesce a sfuggire al suo destino. Quella di Trischitta è narrazione essenziale che non maschera con bello stile la drastica ed inappellabile radicalità dei suoi protagonisti: la sua è una prosa didascalica, bruciata, raggrumata. E anche se i suoi protagonisti sono diversi e lontani per vocazioni, per aspirazioni, per idiosincrasie, a legarli un filo invisibile che li rende uguali: è l’afrore intimo della disperazione e dell’eccesso, il dolore di un sacrificio, di una scelta inappellabile. In questo modo anche i luoghi in cui i protagonisti incontrano il loro destino, non sono che la città di Trischitta: una Catania in lotta tra un adesso tragico e segnato ed un prima sereno e lontano, meno ferino forse ma certamente utopico. Il romanzo è dunque l’epopea corale di questa città, costruita anche sui ricordi personali del padre dello scrittore che ha vissuto la sua giovinezza proprio tra quelle case: una sorta di spoon river tutta cittadina, caparbio ergo sum di chi si è affidato alla scrittura e ne ha fatto una ragione di vita. In questa cornice urbana Trischitta vi innesta il suo bildungsroman: ma al di là anche di una matrice fortemente autobiografica, tutto il romanzo assume il senso di una caduta vertiginosa, di una rovina esistenziale privata e collettiva, senza redenzione e che non è umana ne’ terrena, ma più alta e più misteriosa, come se i protagonisti obbedissero ad un destino irreversibile. A sostanziare questo percorso interviene una scrittura non facile, distonica, in cui si alternano discorso indiretto libero, narrazione in prima persona insieme a dialoghi brevissimi e lancinanti, quasi essenziali, omertosi, arricchiti a volte da sbotti dialettali, di accorati anche se minimali scarti lirici di pasoliniana vitalità. Una scrittura immedesimata che, così come la città stessa, procede per salti logici e umorali, come se il tentativo di auto-rappresentazione dell’io narrante si ingolfasse davanti all’enormità della memoria e tracimasse poi per scatti e folgorazioni. La narrazione è cinematograficamente costruita per rapide sequenze attraverso un montaggio assai particolare. Ma il romanzo di Trischitta è anche la mappa umorale di una città che non esiste più: quella, valga un esempio su tutti, dei campetti polverosi della periferia in cui i protagonisti “sembrano figurine impazzite che cercano di allontanare con la forza un destino avverso”. La musica, è l’altra grande protagonista del romanzo, sostenuto da un potente parossismo sessuale. Da Marc Bolan a David Bowie; dal Dylan di Saved ai Genesis; dai Led Zeppelin a Lou Reed di Berlin, ovvero il concept album che, non a caso, Tommaso Labranca, nella postfazione dell’edizione precedente, accosta suggestivamente al romanzo in quanto rappresentazione di una vita attraverso la città. E’ una musica dolente e compulsiva, dissonante ed eversiva che dalle prime radio libere della città irrompe sul protagonista adolescente e sui suoi coetanei, consentendogli poco a poco di imparare il mondo. Allora, se dovessimo scegliere l’istantanea di questa città penseremmo a quella in cui Catania appare come Mick Taylor – il chitarrista degli Stones – inacidita, negletta a se stessa, contraddittoria e impasticcata; o forse, meglio «tetra e raggomitolata», «vorticosa e brulicante» come scrisse Sebastiano Addamo ne «Il giudizio della sera» di cui questa “Raggiante Catania” porta segretamente dentro più di una eco.