Scritture, Visioni & Immaginazioni
Al Teatro Massimo Bellini di Catania, dal 10 al 17 maggio, in scena L’Elisir d’amore di Gaetano Donizetti, come penultima opera del recupero della stagione 20/21. L’elisir d’amore è un dramma giocoso, scritto da Felice Romani, che si ispirò a Le Philtre di Eugene Scribe, e rappresentato per la prima volta a Milano nel 1832. Un’opera buffa secondo il gusto del pubblico non ancora avvezzo al melodramma romantico, ma che di questo tradisce già qualche contaminazione. L’ambientazione originale è quella dei Paesi Baschi, un luogo bucolico-arcadico, un altrove che ha permesso a Romani e Donizetti di raccontare una vicenda all’impronta della leggerezza, del gioco, dell’intreccio lieve dove l’amore e la gioia trionfano su tutto, complice dell’ottimo vino bordeaux che, all’insaputa di tutti, può avere poteri magici e risolutori. Il regista Antonio Calenda, che da tanto tempo lavora per i teatri siciliani, ha firmato alcune regie per l’INDA di Siracusa, ha voluto dare alla sua rilettura una chiave non ortodossa e lo ha spiegato chiaramente. “L’opera, insieme lieve e complessa, ha una leggiadria bucolico pastorale che intendo garbatamente sovvertire immergendola nel Novecento italiano preindustriale, in quella civiltà agricola ancora pura e incorrotta che ovunque, ma soprattutto in Sicilia, dominava.” Così ad apertura di sipario compaiono biciclette come mezzo di locomozione e lavoro, come oggetto del divertimento delle ragazze del villaggio e anche Adina, la giovane protagonista, arriva in bicicletta.
L’atmosfera anni Quaranta, la tuta blu da meccanico di Nemorino, il bianco perlaceo delle luci, suggeriscono una memoria cinematografica evidente e, nell’intenzione, poetica. L’altra idea che il regista ci spiega è quella di trasformare il villaggio dei Paesi Baschi in una campagna siciliana, ai piedi del Mongibello: “la scelta di ambientarlo a Catania, mi è stata suggerita da un verso che pronuncia Dulcamara, cita il Mongibello, l’Etna”. Ci piace pensare che questo avvicinamento di Donizetti alla Sicilia possa diventare una postuma conciliazione fra il catanese Bellini e il bergamasco Donizetti, in vita sempre rivali. Del resto i momenti patetici dell’Elisir, le romanze, la melodia degli archi, ma anche certe giocosità del coro e dei recitativi, hanno un’eco belliniana, soprattutto nelle voci femminili. Qui il soprano Irina Dubrovskaya si muove benissimo nel personaggio (che è nel suo repertorio da anni e ha già interpretato alla Fenice di Venezia e in Oman) un po’ frivolo, (“la ricetta è il mio visino”) un po’ delicato e articola la voce nei ricami che Donizetti ha imbastito per il personaggio di Adina, con una perizia che non è mai artificiosa. Più leggera la voce del tenore, il messicano Mario Rojas, (sonorità ancora poco mature, ma giuste per questo ruolo); un po’ ostacolato dai movimenti scenici impostati dalla regia, in alcuni passaggi reso ridicolo da una caricatura forzata verso la raffigurazione di Nemorino come uno stupido, laddove è solo un ingenuo innamorato e semplice.
Il Dottor Dulacamara, Francesco Vultaggio, ha una voce dal timbro forte, bene nei panni dell’imbonitore che inganna tutti, imbroglione, ma alla fine dispensatore di amore e gioia. Il basso sa giocare con la voce, sa ironizzare sul suo personaggio che diverte, come da cliché, ma non eccede. La scelta del regista di collocare la vicenda in un Sicilia mitica, rustica ma allegra, potrebbe essere condivisa, potrebbe essere un’idea non criticabile, a priori. Anche l’omaggio a certe atmosfere post belliche di un’Italia che si svegliava e rinasceva con la presenza delle biciclette che rievocano scene celebri di film d’epoca (Ladri di biciclette, Miracolo a Milano), poteva apparire come una trovata poetica e, in fondo, adeguata. Ma questa idea andava sviluppata, fino in fondo. Invece la lunga serie delle biciclette sulle quali arrivano Adina prima, e tutto il coro poi, è diventata l’unica scenografia esistente, Il Mongibello dello sfondo proiettato come immagine fissa, non corrisponde nemmeno alla reale sagoma dell’Etna, ma sembra una montagna che sbuffa, ferma lì e fredda citazione. L’omaggio a Catania che Calenda sostiene di aver voluto fare, purtroppo, si è ribaltato totalmente nel momento in cui si è arrivati, addirittura, a violare il testo, il libretto di Felice Romani, laddove Dulcamara, nella sua cavatina (che tende ancora al recitativo) “Udite o rustici”, dovrebbe dire “ma siccome è pur palese/ ch’io son nato nel paese” e qui gli si è fatto dire “io son catanese”, come a dire: sono un imbroglione. Il resto appare tutto abbastanza banale e prevedibile, poca emozione anche nella incredibilmente bella e famosa romanza “Una furtiva lacrima”, dove pure il tenore, ha dato il meglio, con Nemorino solo in un paesaggio illuminato da una luna gigante, senza un gioco di luci: piatto. Come piatta ci è parsa anche la direzione d’orchestra del Maestro Tiziano Severini che ha appesantito una partitura fra le più belle e originali, proprio per l’esercizio di Donizetti di oscillare fra romanticismo e opera buffa, recitativi, cavatine e melodie sublimi (orchestra e coro del Teatro Massimo Bellini, sempre bravi). Donizetti prevede per i recitativi l’accompagnamento del pianoforte e la presenza della banda dei trombettieri in scena. Qui la trovata della regia è apparsa coerente e piuttosto corretta, perché Belcore (il baritono Clemente Antonio Daliotti) è un sergente bersagliere, così come pure tutta la guarnigione che comanda e che riempie la scena con la sua presenza. Belli i costumi, in linea con l’ambientazione, di Manuel Giliberti che ha curato anche la scenografia (essenziale).
Alla fine trionfa l’amore, la gioia, la voglia di vivere e la speranza. Se questo davvero è il messaggio che questa regia ci ha voluto lasciare, in un tempo così difficile e buio, come quello che stiamo vivendo, cogliamo la buona intenzione e accogliamo la speranza. Il pubblico catanese, generoso e profondamente amante della lirica e di quest’opera, in particolare, ha premiato lo spettacolo con un applauso lungo e convinto.