Metamorfosi mancate e metamorfosi possibili: “Sole” di Carlo Sironi
C’era una volta una bambina con due mamme. No, forse non sarebbe questo l’incipit della storia raccontata da Carlo Sironi, in cui il lieto fine non è per tutti. Sarebbe meglio iniziare così: c’era una volta una bambina la cui giovane mamma l’aveva tenuta in grembo per nove mesi per poi cederla, in cambio di denaro, a una coppia adottiva benestante. C’era anche un’altra donna, la mamma adottiva per l’appunto, disposta a tutto pur di avere un figlio, non importa di chi e come, con quali mezzi, anche illegali. Quale storia, tra le tante favole che ascolterà prima di addormentarsi, verrà raccontata alla bambina una volta cresciuta non è dato saperlo, il regista si sofferma su un preciso momento del processo attraverso cui si diventa genitori, la fase iniziale vissuta da ciascun personaggio in modo diverso. Sironi ci racconta anche un’altra storia che sostanzia di umanità questa vicenda amara, questo mondo periferico, posto nell’anonimato, silenziosamente feroce, una storia fatta di metamorfosi quasi impercettibili ma profonde, e di “ferite di possibilità” che tuttavia dopo essersi aperte, sembrano richiudersi. Una metamorfosi profonda è quella di Ermanno, se all’inizio vuole solo intascare soldi, sperimenta poi la gratuità dell’amore, dei sentimenti attraverso una figlia non sua e attraverso Lena, madre biologica della bambina, e impara a prendersi cura di loro, con piccoli commoventi gesti, non per obbligo ma per istintivo senso di responsabilità e protezione verso una creatura appena nata, ignara di ciò che accade intorno a lei e indifesa. E mentre Ermanno cambia anche Lena cambia, comincia a parlare alla sua bambina, ad abituarla alla sua voce, a guardarla nonostante dovrà cederla. “E’ bello cambiare” aveva detto ad Ermanno, recitando un proverbio russo: “è meglio morire per una zampata di leone che per un morso di gatto”. Ma Lena sa anche che può esserci qualcosa di più forte di questo, del cambiamento, dell’imprevedibile, della metamorfosi vitale e umana, incarnata da Ermanno, e cioè la realtà che tende ad annientare, a vietare la metamorfosi, anteponendole la logica del più forte contro il più debole, della necessità, del ricatto, ignorando i continui e complessi moti interiori dell’animo umano, il senso di una scoperta, la scoperta di ciò che non si conosceva: per Lena qualcuno che si prendesse cura di lei, per Ermanno la possibilità di cambiare. Questa seconda storia metamorfica che costituisce la trama leggera e sottile della prima non prevale alla fine, non porta a quel lieto fine che per un attimo sembra poter accadere e che noi spettatori desideriamo, viene quasi taciuta, nascosta negli occhi chiari di Ermanno. Eppure c’è e apre spiragli di luce, quella luce che viene dal mare assolato (immagine che ricorre nel film e cui allude il titolo), apre un varco nascosto di umanità e pietà. Il regista suggerendo tale storia senza svilupparla ulteriormente e ritornando alla messa in scena iniziale con l’avvocato che dà indicazioni ad Ermanno su come mentire per far ottenere l’adozione della bimba agli zii del ragazzo, sembra distruggerla per far emergere la spietatezza della realtà, e forse anche la disarmonia, la dissonanza e il divergere dei nostri sentimenti da quelli degli altri, delle nostre metamorfosi, totali, possibili o mancate. In realtà Sironi la consegna alla dimensione del possibile, sempre più arginata dalla scelta, una scelta necessaria e spesso imposta, condizionata, eppure il possibile continua a gravitare e le sue ferite continuano ad aprirsi in noi.