Esposizione al logos: “Asbestos” di Pietro Cagni (Le Farfalle)

Il destino della poesia è quello di lasciare segni duraturi, residui impercettibili ma assai resistenti, spesso dolorosi e tragici. Come se chiunque, consegnatosi alla poesia, da autore o lettore, subisse poi, a lungo, le tracce di questa esposizione al logos. Allora l’«Asbestos» – cui allude l’omonima raccolta che Pietro Cagni ha appena pubblicato con Le Farfalle Edizioni, adesso di Vasco Scandurra – è quell’amianto appunto, che, in forma di poesia, lascia segni profondi. La plaquette si presenta come un vero e proprio organismo – «capelli, schiena, ventre, guance, respiro petto» – che si muove e si agita dal «fondo vivo del […] respiro» che è la parola: una parola che spesso insiste sul campo semantico dello sguardo – «occhi, palpebre, ciglia, pupilla» – e che ha dunque necessità di essere nella luce piena, nell’epifania continua di se stessa. Nella sua dimensione organica, dunque, quella di «Asbestos» è una poesia che vede e sogna se stessa, costruendosi per folgorazioni, strappi, incisi. L’azione poetica non è più indirizzata ma sottratta quasi dallo scorrere stesso della vita per avvertirne il senso, la ratio. Pietro Cagni ne sonda la pelle ab origine (la prima sezione dedicata alla figlia ne ripercorre quasi il concepimento) raccogliendo voci, infiammazioni, pene e testimonianze – i corsivi del testo, per sua esplicita ammissione, appartengono ad altri – e il foglio bianco diventa il muro scalcinato sul quale s’incidono e s’incistano quelle voci e la sua. Per questa sua capacità di chiaroveggenza nello spazio e nel tempo, la poesia in «Asbestos» diviene una pratica mantica, ma priva di ogni telos: piuttosto rivolta verso il passato, il rimpianto ma ricca di una coscienza viva, edificante; è graffito – «i graffiti sono una poesia che la città scrive a se stessa» aveva annotato Jean Michel Basquiat, la cui «Prayer» Cagni adotta proprio in apertura di libro – taglio, memoria labile sul tufo della vita e sulla deriva della presenza: nemmeno lo Spirito vi aleggia, non più. Ma, pur nella sua dimensione magmatica, di ammonimento instabile, la cura del verso, rastremato, inciso, spurio – spesso breve o brevissimo – denuncia un’attenzione particolare: per esempio, la posizione a chiasmo dei verbi o la stessa posizione della singola parola sulla pagina quasi il bianco servisse a delimitarla hic et nunc e ad offrirle almeno un senso nello spazio. Suddiviso nelle quattro sezioni – «Molly»; «Alberto»; «attratti dal segnale nascosto» e «nel regno dei fantasmi affamati» – «Asbestos» è certamente libro assai meno sistematico e canonico del felicissimo esordio di «Adesso è tornare sempre» (Le Farfalle, 2015): ciò nonostante entrambi si muovono entro un territorio familiare, sostanziato da una poesia carnale, accesa di un patire cosciente ed inarrestabile – «fondale oscuro dei rami e delle voci» aveva scritto Cagni in quella prima raccolta – e che si riverbera, ora, nel «segnale nascosto» cui allude il titolo della penultima sezione. «Asbestos» si offre dunque come canzoniere irregolare di una nostalgia ma anche di un’attesa e di una nascita a venire che sussume nel suo svilupparsi l’eco di autori amatissimi – Beckett, Ceronetti, Carver, Kerouac, Cecov – in un impasto espressivo che ne filtra «la pena fra le membrane» (come ammoniva Volponi) e la dispiega in una poesia che si fa continuamente annunciazione, messaggio inequivocabile contro il nulla.

Pietro Cagni, Asbestos, Le Farfalle Edizioni, Valverde, 2022, euro 10,00

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