Teatro del Canovaccio, 22 e 23 Aprile
con Vincenzo Ricca, drammaturgia di Roberta Amato e Alice Sgroi, assistente alla regia Gabriella Caltabiano, regia Nicola Alberto Orofino
Produzione Invento Lavorare d’incanto
“Dedico questo spettacolo a tutti i bambini che amano a dismisura. E anche ai grandi che riescono a ricordarselo”
Le parole di Nicola Alberto Orofino concludono le note di regia di uno spettacolo che entra nell’anima come un acido che corrode la nostra coscienza, la buca smascherando tutte le ipocrisie del mondo borghese e perbenista in cui viviamo. Il testo, scritto da due donne catanesi, anzi no, scritto col sangue di due donne catanesi, Alice Sgroi e Roberta Amato, mitraglia un racconto triste e crudo attraverso l’affabulazione del protagonista, Cirasedda, chiamato così dalla mamma per i suoi occhi dolci e perché “alle mamme ci piace riri i cose ruci”
La mamma, fa il mestiere, quello antico, quello che non si dice, in uno dei quartieri che gli uomini frequentano per trovare il piacere; quei quartieri che ci sono in tutte le città, quei “quatteri” che ci sono anche a Catania.
Di Natale che la mamma chiama Cerasedda, la Amato e la Sgroi hanno raccontato quello che non si racconta, loro sono andate oltre il tabù, per denunciare e ricordare le esistenze ai margini, quelle che non si vedono, quelle scomode, censurate, scandalose, di cui, ogni tanto, si legge sul giornale, in un trafiletto di fondo nella cronaca nera.
Orofino ha spiegato al pubblico che la storia che lo aveva colpito anni fa era quella di Pinuccio, un bambino figlio di… che aveva fatto una brutta fine, rimasto intrappolato nelle maglie di quel crimine organizzato che attinge a piene mani dai diseredati e nella miseria.
E così, in queste serate di aprile, al Teatro del Canovaccio, è stato possibile assistere a un racconto in prima persona dove Cirasedda, seduto sul pisolo, davanti alla sua misera casa, aspetta che i clienti della mamma escano per poter rientrare, per poter riconquistare la sua mamma.
Mamma è la parola più bella che ricorre in questo monologo. Perchè un bambino ama la sua mamma più di ogni altra cosa al mondo e questo bambino, di dodici anni, ama la sua mamma anche se lei fa quel mestiere, anche se lui, davanti alla tenda che chiude la porta, sente tutto, sa tutto quello che succede, conosce tutti i clienti e li fa entrare, e prepara loro il caffè. Ma Cirasedda soffre, mentre canta una filastrocca per non sentire, vuole che la sua mamma si riposi, la porta al mare un giorno e le sembra bella, la più bella di tutte. Ringrazia Dio per la bellezza della mamma, per quella “biddizza ca ci campa”.
Già, Dio. Cirasedda pensa a Dio che decide i nostri destini; quel Dio che si diverte e ha fatto quattro stagioni (“cauru, cauru-cauru, frscu e friscu ammatula”), che sorteggia le nostre vite a caso e a lui, a Natale, nato nel giorno di Natale, ha dato solo la mamma, con la sua bellezza, perchè è così, bisogna accettare, “chista è a stidda”.
Natale, Cerasedda è Vincenzo Ricca, su di lui si regge tutto il peso di una drammaturgia così intensa, ritmata e dal linguaggio articolato tra dialetto catanese, stretto, e un italiano popolare colorito. Un testo che richiede una recitazione di grande fatica, dove l’attore mescola tecnica a immedesimazione e si trova spesso quasi in apnea per le lunghe sequenze che, come in una confessione, usano un lessico così preciso, così efficace da trasmettere tutto il disgusto e anche tutto il dolore, la paura di un bambino che assiste e che ha perso la sua infanzia.
La raffinata regia di Orofino ci porta fino alla commozione ma ci turba ancora di più con la sua tecnica prediletta, lo straniamento, che mette in opera con l’accostamento di brani musicali suadenti, qui soprattutto Chopin col suo Spring Walzer e con il celebre Notturno, al quale affianca ballate anni Settanta e, sul finale, un pezzo rap.
Ancora una volta ci siamo trovati di fronte a un connubio di regista, autori, e attore dalla perfetta sintonia che comunicano al pubblico riflessioni, emozioni, in questo caso quasi uno schiaffo carico di quella necessità di fare del teatro il luogo della memoria e del riscatto, impegno militante, necessario.