regia di Carlo Sciaccaluga, con Debora Bernardi Chunga, Francesco Foti Josefino, Francesca Osso Meche, Valerio Santi Lituma, Giovanni Arezzo ruolo Scimmia, Pietro Casano Josè. Scene di Anna Veraldo, costumi di Anna Verde, luci di Gaetano La Mela. Produzione del Teatro Stabile di Catania, Teatro di Roma-Teatro Nazionale.
Dal 9 al 18 maggio 2025, il Teatro Stabile di Catania ha presentato La Chunga di Mario Vargas Llosa, con la regia di Carlo Sciaccaluga, completando così una trilogia dedicata all’autore peruviano, premio Nobel per la Letteratura e recentemente scomparso, dopo I racconti della peste e Appuntamento a Londra.
La piéce di Vargas Llosa, che nasce come un frammento distaccato dal romanzo La Casa verde dello stesso, dove il personaggio che qui dà il titolo all’opera era decisamente secondario, rievoca la notte in cui nel bar della Piura, gestito dalla Chunga, Josefino, per una partita a dadi, diede in pegno la sua donna, Meche, alla stessa proprietaria che tutti definiscono “frocia”, perché aveva manifestato più volte interesse verso la giovane innamorata dell’uomo che vuole solo sfruttare.
Lo scrittore sudamericano ha elaborato un racconto alla rovescia, dove la narrazione si sviluppa attraverso ricordi e versioni contrastanti per ricostruire il mistero della scomparsa di Meche.
Nello stesso bar si ritrovano, molto tempo dopo, quattro uomini, “gli inconquistabili”, che sempre giocando a dadi e bevendo rievocano la bella ragazza e gli eventi di quella terribile sera.
I temi di questo testo sono quelli caratteristici di Vargas Losa e della letteratura sudamericana, a metà tra denuncia sociale e realismo magico e questo aspetto caratteristico legato al ricordo e al sogno è quello scelto dalla regia di Sciaccaluga che ha enfatizzato l’ambiguità tra realtà e immaginazione, utilizzando una scenografia ( di Anna Varaldo) duplicata su piani paralleli, uno in alto rappresenta il ricordo, uno in basso nella sala del bar coi tavolini e le sedie di plastica, il banco-frigo, il presente. A sottolineare i due tempi, i giochi di luce (opera di Gaetano la Mela ) enfatizzano la rappresentazione della fluidità della memoria e la complessità del desiderio maschile che è il vero tema di questo singolare testo.

Le due donne incarnano un concetto più ampio: la perdizione, l’innocenza violata, la resistenza, la marginalità.
Il quattro uomini che frequentano il locale hanno tutti avuto a che fare con la ragazza, sono tutti, in qualche modo, coinvolti. Nessuno sembra sapere esattamente cosa sia accaduto quella notte, o sembra ricordare. Fra i quattro attori sulle scene dello Stabile abbiamo assistito a una reale prova di bravura, in ruoli diversi e caratterizzati secondo le diverse categorie dell’umanità focalizzata dall’autore.
Nei panni di Josefino Francesco Foti -che abbiamo recentemente ammirato in Esercizi di stile sempre allo Stabile di Catania- è un personaggio subdolo e viscido, violento verso Meche, sospettato di femminicido, dimostra una grande abilità nel concretizzare l’immagine di un essere senza scrupoli e senza moralità, carico del fascino del male, anch’egli vittima di un contesto immorale che non lascia speranza.

Giovanni Arezzo è Scimmia, un emarginato con un passato oscuro, che annega nella birra una desolazione così profonda che lo ha degradato quasi alla dimensione animale, scimmiesca appunto.
Nel suo ricordo emerge la confessione dalla quale si scopre il suo orribile misfatto, l’aberrazione di aver violato una bambina con la minaccia, la stessa violenza mascherata da innocenza. A Valerio Santi è toccato il personaggio di Lituma, forse il più difficile da interpretare, forse il più riuscito. Timido e problematico, privo di esperienza con le donne ma innamorato fino a perdere ogni ritegno, si inchina, letteralmente, ai piedi di Meche, striscia e le propone di fuggire con lui, lontano da Josefino, lontano dal male, lontano dal pericolo, sconvolto da un amore malato. Il quarto uomo, Josè, interpretato da Pietro Casano, è il pervertito che ama guardare, che si eccita solo a sentire ricordare la Meche; con pochi gesti, con sguardi allusivi, con una gestualità evidente, Casano ha portato sulla scena la maschera studiata per incarnare la sessualità negata e sognata, a metà fra l’orco e il bambino.

“La narrazione crea verità. E la letteratura è sempre vera. Come scrisse Umberto Eco, il Papa e il Dalai Lama potrebbero discutere per giorni circa la natura di Dio senza arrivare a un accordo, mentre nessuno dei due esiterebbe a confermare che Superman è Clark Kent. Questo è il potere del racconto. ” (note di regia). E’ Sciaccaluga ha sottolineato il potere del racconto e del ricordo, sfumando la pur palese oscenità, dissolvendo -con effetti di luce cinematografici-, sottolineando la parola e le voci di attori affiatati e in perfetto equilibrio. Un sottofondo musicale, un motivetto cantato da tutti funge da elemento straniante: Historia de un amor, là dove l’amore è assolutamente assente.
Una piéce moderna, attuale, terribilmente universale per le tematiche legate alla sessualità, alla violenza sulle donne, alla sopraffazione patriarcale, al degrado morale. Un importante omaggio a uno dei più grandi scrittori contemporanei.
Foto di Antonio Parrinello