“Ciauru i figghia”

Dopo più di dieci anni, torna a Catania, presso  FabbricaTeatro, la folgorante ascesa sociale e la rovinosa parabola di un  ‘uomo senza qualità’, Delfo Torrisi, raccontata dalla sulfurea ironia di un drammaturgo di razza come Nino Romeo, che ne è anche interprete, diretto da un maestro dell’avanguardia storica, il regista Pippo Di Marca. Produzione Gruppo Iarba Gria Teatro.

Da martedì 7 a domenica 12 marzo.

Un uomo solo, in una solitudine totale, disarmata e disarmante, racconta la sua storia seduto ad un tavolo, circondato da bicchieri e da bottiglie. Nella piccola sala del teatro  il palcoscenico è reso da questo grande tavolo, due flute da spumante fanno da sipario quando Delfo Torrisi, il protagonista di questo racconto, si siede e sposta i due calici, come aprisse la tenda.

Così comincia la sua straziante affabulazione che è confessione e memoria.

Il testo di Post Mortem è stato scritto da Nino Romeo (che ne è anche interprete), prima in forma di novella e poi trasformata in monologo teatrale, presentato già a Catania nel 2006 e poi nel 2012, per raccontare l’esistenza di un uomo di successo, il figlio di un netturbino di Trecastagni che diventa medico e Direttore dell’istituto di Medicina Legale dell’Università di Catania, ma vede la sua intera esistenza stravolgersi e precipitare di fronte alla più grande delle tragedie: la morte della figlia.

Il racconto parte da lontano. Davanti a un piccolo pubblico, in una dimensione spettrale e inquietante, Delfo ricorda i suoi anni da ragazzo, i primi amori, gli studi, la laurea, il tirocinio e poi la carriera che comincia per uno strano caso, per un dono che la natura gli aveva fatto: il suo naso, cioè il suo fiuto raffinatissimo che gli permetteva di avvicinarsi ai cadaveri e comprendere ora e causa del decesso soltanto dall’odore emanato, prima dell’autopsia. Così aveva scelto la specializzazione di Medicina Legale e lì aveva fatto carriera. Una carriera intrapresa dentro l’ospedale Vittorio Emanuele, in un contesto sociale che, i catanesi lo sanno bene, era fatto di ingerenze potenti dal contesto esterno che è quello di un quartiere popolare e controllato da dinamiche non proprio lecite.

Femminaro accanito, insaziabile e amato dalle donne, racconta le sue avventure, il suo matrimonio, la sua quotidianità, colorendo episodi della sua vita di un velo di comicità e autoironia. Fino a quando il caso non interviene a spezzare per sempre l’intera sua esistenza, la sua stessa identità, il senso  della vita.

Delfo ci racconta quel momento in cui si trovò davanti il cadavere della figlia adolescente,  consegnata nuda dai carabinieri a quell’obitorio dove lui, ogni giorno, aveva a che fare con la morte, la morte  di estranei, quella di corpi che  aveva sempre trattato come membra, parti, oggetti, senza vita e senza anima. Il cadavere che quella sera gli si presenta davanti agli occhi non era carne vuota di esistenza ma era la figlia che lui aveva generato. La riconosce subito perché quel corpo non emanava l’odore dei cadaveri ma “ciauru i figghia”. Così la pulisce, la libera della sabbia che le copriva il volto e la pelle, la accarezza, le si pone accanto in un abbraccio  intimo, quasi osceno, disperato.

Nino Romeo si fa carico di questa narrazione in prima persona, in maniera magistrale, incarna, non interpreta, Delfo, “u prufissuri” degno di rispetto e ammirazione, quando la vita sarcastica e crudele lo ha distrutto con un dramma insostenibile che lui ci racconta, in preda all’alcool, circondato da bicchieri che muove sul tavolo come soldatini di un esercito e svuota e riempie facendosi accompagnare dal tintinnio del cristallo. Una semplice gestualità, calibrata dalla sapiente regia di Pippo Di Marca, accompagna ogni singola parola ed evoca, con lo sguardo e le mani in primo piano, i frammenti di una vita che si infrangono nell’epilogo inaspettato e cupo.

La lingua di questa potente affabulazione è un arcaico siciliano, anzi catanese carico di un lessico antico, barocco, la lingua del padre, la lingua dell’anima. Nel momento della resa dei conti, quando Delfo sprofonda nell’auto demolizione, il racconto non è dettato dalla ragione, ma dall’interiorità ferita che emerge spontanea, senza filtri, con l’autenticità più schietta che si serve della lingua del cuore: il dialetto.

Una lingua colorita e carica di metafore come solo l’idioma siciliano può fare, arricchito di suoni onomatopeici, di accostamenti arditi, ironica e poi terribilmente dolce e triste, come in quell’espressione che commuove e strazia: “Ciauru i figghia”.

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