“Leonora addio” di Paolo Taviani

 

“Né togliere mi potrò l’immagine sua dal cor”

Il legame dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani con la figura e l’opera di Luigi Pirandello è fortissimo e lo hanno dimostrato dal 1984 quando scrissero il soggetto del film Kaos da alcune novelle tratte dalla raccolta Novelle per un anno. Ci sono poi tornati, nel 1998 con il film a due episodi Tu ridi, per trasferire per immagini il mondo paradossale e grottesco dello scrittore siciliano. Operazione difficile ma riuscita pienamente entrambe le volte grazie a una singolare capacità di rendere comunicativo anche il linguaggio non verbale e caricare, quindi, di suggestioni e di non-detto i paesaggi, le luci, i volti, i cieli, la campagna siciliana, il mare, gli sguardi… Ciò che Pirandello lascia in sospeso perché si compia nella mente del lettore, i registi hanno saputo coglierlo e trasferirlo sullo schermo. Ora Paolo, a 90 anni, è rimasto solo. Vittorio è deceduto nel 2018 e il sodalizio di sangue e di arte si è dovuto spezzare. Ma non del tutto. Come spesso succede quando un legame è molto forte e lascia in chi resta un segno profondo, un insegnamento, una serie di ricordi e di progetti incompiuti, Paolo Taviani ha voluto fare un grande omaggio al fratello, recuperando parte di un progetto rimasto incompiuto e portandolo a termine per offrire agli spettatori una riflessione sulla morte, sulle mancanze e sulla memoria. Nella realizzazione del film a episodi Kaos, le novelle che inizialmente erano state scelte erano di più e comprendevano anche Leonora addio, un racconto struggente che parla di una donna appassionata di teatro, soprattutto l’Opera, che per la gelosia del marito viveva reclusa e un giorno, soffocata dalla sua tristezza, canta la romanza della Forza del destino, “Né togliere mi potrò l’immagine sua dal cor” e cantando muore. Ma questo film, appena uscito nelle sale italiane e presentato in concorso alla Berlinale 2022, non racconta niente di quella novella. Racconta, invece, la storia, abbastanza conosciuta e citata anche da Andrea Camilleri, delle ceneri di Luigi Pirandello che, dieci anni dopo la sua morte, furono traslate da Roma ad Agrigento con un viaggio rocambolesco. La prima parte del film è dedicata a questo episodio, con immagini in bianco e nero mescolate a quelle di repertorio –la cerimonia di consegna del premio Nobel- citazioni da film neorealisti e finzione narrativa con l’epopea del funzionario, interpretato da Fabrizio Ferracane,  incaricato di recuperare e riportare in Sicilia le ceneri del Maestro. Non manca l’umorismo pirandelliano e il profondo senso del paradosso nella sceneggiatura con episodi e battute che sembrano scritte dall’Agrigentino: la scena del “tresette col morto” giocato dagli ignari viaggiatori sulla cassa che contiene l’urna con le ceneri, suscita proprio quel sorriso amaro che lo Scrittore aveva scelto come sua specifica cifra. La seconda parte è un innesto tratto da un’altra novella, Il chiodo, dove Pirandello racconta la storia, a quanto pare vera, di un ragazzo italiano emigrato a New York che aveva ucciso una bambina conficcandole un chiodo in petto. Misteriose le cause di questo gesto ma ancora più misterioso il legame che si istaura tra il ragazzo assassino e la bambina morta che, una volta uscito dal carcere, lui visiterà, sulla tomba, ogni anno della sua vita. Dunque la morte, è evidente, è il tema del film con le varie declinazioni che essa assume. Non c’è nessun riferimento strettamente personale alla biografia dei due fratelli, ma la dedica iniziale a schermo intero “A mio fratello Vittorio” campeggia su tutto il resto della pellicola. C’è la morte di Luigi Pirandello, il suo reale trapasso, la cremazione del corpo, la tumulazione delle ceneri al Verano, il viaggio di queste ceneri verso Agrigento, il monumento definitivo, in contrada Caos. E su tutto, come un velo di cipria in trasparenza, presente solo nella sua assenza, la novella che dà il titolo al film, Leonora addio. Il film è anche un’occasione per raccontare, ancora una volta, un frammento della storia d’Italia, un passaggio difficile e complesso, quello del 1946, quello di un paese che esce distrutto dal Secondo Conflitto Mondiale e, soprattutto, dall’orrenda pagina dell’occupazione nazista. Non poteva mancare un omaggio al cinema neorealista sul quale i Taviani si sono formati, una citazione da Rossellini; ma anche l’impostazione del racconto del viaggio ha un taglio nettamente documentaristico, in bianco e nero, con le sequenze fisse sui volti. Si rivede l’epopea della Notte di San Lorenzo, stessi notturni, stesso cammino di uomini e donne verso il loro destino. Il secondo episodio, Il chiodo, è anch’esso arricchito di rimandi e agganci al film Kaos, laddove il regista ci presenta il ragazzino assassino come il bambino che aveva lasciato la Sicilia col padre per cercare fortuna in America. L’episodio aveva un momento poetico, quando i familiari dei migranti che partono a piedi dalle campagne assolate legano agli alberi fazzoletti bianchi per far sì che si vedano da lontano come saluto. Da questa scena si muove l’azione del secondo episodio che è così un simbolo del legame esplicito con quel film lontano nel tempo, un ideale saluto di Paolo al fratello, un tassello di unione tra la morte di Pirandello, la morte della bambina a New York, la morte di Leonora, la morte di Vittorio Taviani. A sottolineare l’azione la colonna sonora di Nicola Piovani che da sempre accompagna la filmografia dei Taviani, una fotografia, di Simone Zampagni, calibratissima sulla storia che usa sapientemente il bianco e nero e sfuma verso il colore gradatamente nel passaggio dal primo a secondo episodio. E’ un film difficile, se pur affascinante; costruito come una matrioska con rimandi continui e riferimenti che lo spettatore attento si diverte a cogliere sul filo della memoria.

E come cantava Leonora: Né togliere mi potrò l’immagine sua dal cor.

 

 

 

 

 

 

 

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