Prigioni o soglie: «Il signore delle formiche» di Gianni Amelio

Io penso di aver dato il massimo con questo film, lo amo profondamente. Braibanti si è innamorato e anche io mi sono innamorato, non sono andato in galera come Aldo ma sono chiuso in un carcere tutto mio”

Gianni Amelio

Un cancello aperto senza inferriate ai lati, senza cinte murarie ma circondato da erba alta nell’aperta campagna emiliana, attraversato da biciclette. E’ questo l’ingresso nel mondo del «signore delle formiche», il professore Aldo Braibanti che nella sua «Torre» insegna ai suoi giovani allievi come diventare discepoli della bellezza. Uno spazio aperto ma distante, un mondo che verrà distrutto da ciò che è chiuso, come chiusa è la provincia dalla quale bisogna andare via, scappare, ma anche la città, con i suoi palazzi di giustizia e la sua vuota monumentalità, dalla quale si viene mangiati e schiacciati. La costante dialettica tra dentro e fuori che sembra regolare le nostre esistenze, si radicalizza in un luogo chiuso come il carcere dove si consuma la condanna inflitta al professore accusato di plagio (secondo il codice penale in vigore negli anni ’60, reato commesso da «chiunque sottopone una persona al proprio potere in modo da ridurla a totale stato di assoggettamento») ed esposto alla gogna pubblica in quanto aveva intrattenuto una relazione omosessuale con un ragazzo. Manca in realtà ogni nesso logico e causale, c’è qualcosa di dissonante tra il reato in questione e la realtà dei fatti, tra ciò che viene usato per colpire un uomo e ciò che si vuole punire e colpire veramente, cioè la sua omosessualità. Così la legge viene piegata e ridotta a pericoloso strumento di discriminazione, violazione della dignità umana e di legittimazione dell’omofobia e dei pregiudizi sociali più biechi. Vediamo più volte nel film il volto di Braibanti (Luigi Lo Cascio) attraverso le sbarre: a ben riflettere potremmo però essere noi quelli dietro le sbarre di una prigione che non vediamo più e che finisce per essere, paradossalmente, il nostro rassicurante universo chiuso, si tratta del nostro stesso cervello, del nostro stesso corpo e della sua pelle, della nostra cultura e delle sue sovrastrutture, della nostra arroganza nel sancire cosa è natura e cosa è «contro-natura» e nello scegliere i nostri personali giudici dell’universo, è la nostra superbia nel credere ci sia un’ontologia assoluta e sovrana, gerarchicamente più alta, quella dell’uomo. Alla prigione, al di fuori della quale la società italiana degli anni Sessanta cerca di scuotersi dall’indifferenza e cerca di cambiare, si contrappone la teca trasparente in cui si muovono incessantemente le formiche, oggetto di osservazione e interesse scientifico del professore, esse per vivere necessitano proprio di uno spazio concentrato per evitare di disperdersi, per agire insieme e coordinate, per non perdere di vista i compagni, inoltre, le formiche femmine col tempo mettono da parte spermatozoi per poi usarli in una sorta di autofecondazione. La formiche, come tutte le creature e le specie altre che abitano questa terra, ci ricordano che esistono tante ontologie possibili e che la totalità del vivente è plurima in se stessa, molteplice, ridurla e irrigidirla in gerarchie, categorie e configurazioni fisse significa ignorare la molteplicità che la sostanzia e la governa, disconoscere colpevolmente. La nostra stessa prospettiva, da cui guardiamo agli altri, è in realtà ridotta e parziale tanto quanto la prospettiva delle altre specie, è il nostro primo limite. Solo assumendo tale presupposto, tale postura cognitiva verso l’altro da noi e il suo altrove potremo conquistare l’umiltà necessaria per incontrarlo davvero ed esplorarlo, per riscoprire lo stupore nel suo accento diverso che ci fa sentire la nostra vera voce. Gli attori scelti da Gianni Amelio, Luigi lo Cascio in particolare ma anche Anna Caterina Antonacci e Leonardo Maltese, lavorano molto sulla voce e le modulazioni dell’accento, impiegando anche il dialetto e restituendo l’irriducibile alterità dei luoghi custodita dalla lingua che può arricchire l’incontro con l’altro ma anche confinarci nel nostro mondo-prigione e cristallizzare nelle parole luoghi comuni e pregiudizi. Il vero dramma che è di tutti gli uomini al di là del proprio orientamento sessuale, o meglio al di là di chi si ama, è quello di non poter penetrare fino in fondo nell’esperienza dell’Altro dal suo proprio punto di vista situato nel suo corpo e nella sua persona. È questa la condanna esistenziale e cognitiva che ciascuno di noi sconta continuamente nella dimensione interpersonale delle relazioni e dei legami. La «grandissima storia d’amore tra un uomo e un ragazzo», una storia autobiografica, che Gianni Amelio ha scelto di raccontare e far conoscere, ci suggerisce come trasformare questa condanna, questo limite costitutivo in una vitale esperienza di incontro e scoperta irrinunciabile, come tramutare i confini del corpo, della mente e dei luoghi in soglie, ovvero come riuscire a provare «emozioni comuni».

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