I L G I A R D I N O D E I C I L I E G I

di Anton Cechov

“Io amo questa casa, senza il giardino dei ciliegi non ha senso la mia vita, e se è proprio indispensabile venderlo, allora vendano anche me assieme a lui. Mio figlio è annegato  qui“

Il Giardino dei ciliegi è una commedia, così la volle fortemente definire Anton Cechov, nel 1903, anche se con riflessioni sul dramma dell’esistenza  in un’epoca di decadenza.

La trama di questa opera teatrale è poverissima di azione scenica, ma ricca di storie rivissute da “dentro”, ricordate, proiettate nei ricordi e nelle fantasie dei personaggi.

Cechov non voleva che l’opera si considerasse un dramma, ma un vaudeville; aveva, infatti, intessuto la vicenda di scene burlesche e farsesche. Aveva espresso un amaro dissenso di fronte alla regia di Stanislavskij che, alla prima rappresentazione, nel 1904, aveva fatto emergere solo gli elementi tragici.

Al Piccolo Teatro della Città di Catania, in queste sere  il capolavoro di Cechov è stato rappresentato per la regia di Nicola Alberto Orofino (che torna a un suo antico amore, l’autore del Gabbiano) in una nuova veste che non avrebbe senso definire moderna, piuttosto universale.

Il giardino del titolo non lo vediamo ma, entrando in sala -una sala senza sipario- letteralmente lo leggiamo, così come viene scritto: I L  G I A R D I N O  D E I  C I L I E G I. Sono lettere illuminate su cubi che si trasformeranno in rami degli alberi, radici, stanze, armadi dei giochi, tavoli, frammenti. Così Orofino va oltre il concettuale ma spinge lo spettatore a leggere e a immaginare.

“In questa edizione abbiamo cercato di scrostare il testo e la messa in scena dai vetusti cechovismi che spesso appesantiscono questa drammaturgia. Il risultato è uno spettacolo che ha un andamento forse più dinamico e un gusto più mediterraneo rispetto ad altre gloriose edizioni” Nelle note di regia il regista catanese amato dal pubblico per la sua originalità e creatività, ci spiega la chiave di lettura che ha voluto dare al testo e che ha portato in scena insieme a un gruppo consolidato di lavoro, “dodici anime”, come lui stesso le chiama, che interagiscono e incarnano quel mondo in decadenza che l’autore russo (nato in Ucraina) ha dipinto nel 1903.

In decadenza c’è la nobiltà russa e una struttura sociale sclerotizzata sulle stesse posizioni per secoli.  I deboli, Ljuba e Gaev, sono puri come bambini mai cresciuti e riluttanti a diventare davvero adulti. Per questo motivo rifiutano di lottizzare e vendere il giardino che è per loro il simbolo del  perduto passato felice, il  rifugio beato e ridente, che li ha protetti e isolati dal mondo, come l’armadio della loro stanza di bambini. In quella  stanza, dove Ljuba ritorna dopo anni di assenza e dopo la tragica morte del figlioletto, piena di cimeli e oggetti legati a momenti spensierati, il ricordo si animerà letteralmente dei fantasmi di un’età irrecuperabile.

Il tracollo economico della  famiglia sembra sfuggire alla loro comprensione, né i due fratelli, né le due figlie di lei, Anja e Varja, si rendono conto o sanno come agire per tentare di risolvere questo declino. Ad approfittare della situazione è Lopachin, un contadino arricchito, figlio di servitori, di cui si è innamorata Varja, che comprerà il giardino messo all’asta e procederà con la lottizzazione. Mentre si abbattono i ciliegi, i vecchi proprietari e la servitù partono per sempre e si dividono, chi andrà a Parigi, chi in altre città, straziati dalla nostalgia  e dall’attaccamento a un mondo e a un tempo destinato a finire.

E’ riconosciuto che Il giardino dei ciliegi sia un dramma politico.  Lopachin, figlio dell’antica servitù della famiglia, con l’acquisto del terreno e la sua lottizzazione, sancisce il riscatto della classe operaia su quella aristocratica. In senso lato dunque il dramma rappresenta la decadenza dell’aristocrazia russa e insieme il suo immobilismo.

I due mondi paralleli, dei ricchi nobili e dei dimenticati, non si sono incontrati e mescolati, ma capovolti, a pochi anni dalla grande Rivoluzione. Anche se, nella versione di Orofino, non ci sono i segni di una vittoria. La sconfitta è di tutti. Il passato viene cancellato con un colpo di spugna, con un ribaltamento che non punta, però, a fare emergere una rivendicazione. Il personaggio di Lopachin, affidato a Daniele Bruno non ha le tinte del vincitore ma è incline, anche lui, alla malinconia e, costretto da un principio di necessità storica, si fa interprete del passaggio ma non ne trionfa. Bruno dà voce a una figura più universale di quella concepita da Cechov, grida la sua rabbia, (trasmettendone lo strazio intensamente), la sua voglia di riscatto, chiede a gran voce all’orchestra di suonare per fare festa dopo l’asta con la quale lui, proprio lui, figlio e nipote di quei servi che per anni avevano subito la schiavitù di una società feudale; lui, adesso proprietario acquisisce la pietas verso quei signori perdenti, verso quella donna che, forse, aveva amato, e incarna solo la fine. La fine di un mondo che scompare, assieme al giardino dei ciliegi, mentre un vento gelido col suo soffio impetuoso, porta via tutto.

Ogni lettera del GIARDINO DEI CILIEGI, viene infilata in uno scatolone, pezzo a pezzo si smonta un’ idea.  Solo il vecchio servitore Firs (un composto e grave Giovanni Zuccarello) resterà chiuso dentro la casa, ad aspettare la morte, dimenticato da tutti, come un qualsiasi oggetto inutile, testimone e custode del passato. Poi il nulla, la scena vuota e nera.Le “dodici anime” sono dodici attori bravissimi, che traggono forza dal loro sodalizio e arricchiscono con una eterogeneità palese una rappresentazione così viva e autentica. In loro si rispecchiano nostalgia e  rimorso,  rimpianto e  paura, presentimento e rivendicazione. Sono speculari e sono unici, sono potenti e delicati, grotteschi e teneri. Sono Luana Toscano, Egle Doria, Francesco Bernava, Anita Indigeno, Daniele Bruno, Luigi Nicotra, Alice Sgroi, Carmela Silvia Sanfilippo, Luicia Portale, Giovanni Zuccarello, Alberto Abadessa, Vincenzo Ricca.

Nessuna nota stonata.

E, a proposito di note, anche qui, come sempre per Orofino, la musica accompagna e accarezza le emozioni: il valzer di Shostakovich a sottolineare il movimento circolare e decadente della sconfitta, il canto spagnolo Desde el alma che viene cantato a cappella da tutti i personaggi in un coro che si fa commento, ma anche evasione, e poi la colonna sonora di un film che abbiamo amato tutti, che ci portiamo dentro tutti e che, concettualmente, rimanda al conflitto fra realtà e idealità, a quella nostalgia che ci riguarda da vicino, quando perdiamo il nostro “Giardino dei ciliegi”: In the mood for love.

Si leggeva negli occhi delle “dodici anime” sul proscenio a prendersi gli applausi meritatissimi, il loro impegno e  la totale immedesimazione, si leggeva la gioia e la soddisfazione, ancor più negli occhi di Orofino, di Vincenzo la Mendola che ha costruito questa scenografia essenziale e ha curato anche i costumi, dell’aiuto regista, inseparabile e  preziosa, Gabriella Caltabiano.

In scena ancora fino a domenica.

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