Il genio inorganico che “abita la battaglia”. Il saggio di Vincenza Di Vita su Carmelo Bene (Mimesis)
“Un femminile per Bene. Carmelo Bene e le Ma-donne a cui è apparso” (Mimesis) è una vera e propria epistemologica beniana sorretta da una intelaiatura critica solida e rigorosa, in cui l’autrice, Vincenza De Vita, indaga il rapporto di Bene con il sacro. Un lavoro di ricerca che ha impegnato la studiosa dal 2011 e che adesso si condensa in un testo che esplora, lungo due capitoli (arricchiti pure da un ricco apparato iconografico e da un elenco di opere selezionate di Carmelo Bene) la vita, gli spettacoli e la filosofia dell’attore sullo sfondo del “sacro” e della negazione della performance, dei concetti di pornografia come rappresentazione dell’assenza e di ritualità. Sulla centralità di “Sono apparso alla Madonna”, di tutte le “sublimi insensatezze disseminate in terra del Sud” e soprattutto di “Nostra Signora dei Turchi” (premio speciale della giuria alla Mostra del Cinema di Venezia del ‘68), si muove la seconda parte del testo, “Le fatine da amare”. Quella che ci pare essenziale nel saggio della De Vita è la questione del linguaggio, sorta di cardine ineludibile: e pare di intravedere, tra le righe anche il Foucault de “L’ordine del discorso”, così come l’importanza dell’oralità che in Bene viene evocata dal sesso orale, che “diviene esibizione di un erotismo che sta tutto all’interno della parola e della bocca in quanto dispositivo linguistico”. Ma è anche l’approccio neurocognitivo ad aprire spiragli interpretativi assai interessanti in rapporto alla questione della rappresentazione, della performance come “vita-ricreata” che De Vita mutua in parte dagli studi di molti autori e dai loro riferimenti alla prestazione attoriale: e gli spunti teorici e critici di Benjamin e di Grotowski sia contro gli “spettatore distratti”, sia contro la “miseria dell’attore che si prostituisce appaltando il proprio corpo”, sono davvero esemplari. Carmelo Bene ha assunto benissimo queste indicazioni sperimentando nel proprio teatro quello spazio sacro in cui la forma-corpo dell’attore si svuota di se stesso, diventa finalmente mancante, erotica e si svela come pura phoné: “testo, corpo dell’attore come testo esso stesso”. Anche i dati biografici di Bene – dalla scoperta del corpo (la consapevolezza “d’essere un tubo digerente”) a quella di San Giuseppe da Copertino, dallo Schopenauer “sempre a portata di mano”, all’educazione cattolica presso i padri Scolopi – sono ovviamente funzionali ad inquadrare un’esistenza da artifex, continuamente ricostruita, in un gioco di specchi distorsori, con riferimento a figure esemplari: “la Duse, Totò, San Giuseppe da Copertino e le donne che appaiono su riviste di cronaca rosa, sfogliate da una santa che annoiata fuma una sigaretta con aria distratta, a cui ciondoli in testa una finta aureola.” In questa prospettiva le “apparizioni” beniane si trasfigurano, rovesciandosi, in una dimensione terrena e femminea: “Si accumulano in questo repertorio di deformità – sottolinea De Vita – burattini, Pinocchi, prostitute, bambole, fatine, statue, armature, maschere.” Lo scopo di Bene è l’annientamento della tradizione – e la presenza costante nel testo di De Vita del Genet di “Notre Dame de Fleurs”, è sintomatico (l’idea delinquenziale del non-essere come attore) – l’affermazione di un de-pensamento, di una crudeltà artaudiana intesa come autodisciplina, “rigore e applicazione, determinazione dell’azione scenica”: insomma le condizioni stesse della sua messa in opera. Il saggio traccia anche la formazione artistica di Carmelo Bene, dai legami d’infanzia col sacro ai debutti, gli adattamenti dalla letteratura (da Stevenson ad Hölderlin, da Manzoni a Leopardi, da Campana a Pascoli), l’esperienza delle cantine e le forme di teatro non istituzionalizzato, la sua idea di contaminazione tra cinema, teatro e poesia: tutto in funzione di quell’auto-disfacimento, in cui anche il vestire-travestire-svestire sulla scena diventano “pretesto che intende attuare una crisi teatrale che possa investire il senso del togliere di scena.” Bene non si traveste da donna, diventa tale: in ciò si svela l’essere donna un “apparire all’archetipo dell’apparizione per eccellenza”. A questo punto dissolto il testo – il frantumare ciò che mi reclamerebbe ʻinterpreteʼ a ogni fiato – è possibile rin-tracciare le dinamiche gestuali, i meccanismi bio-dinamici, quel corpo-macchina in cui la negazione del linguaggio raggiunge la sua trasfigurazione in phoné: il “dio assente”. In questo teatro in cui viene eliminata tanto ogni retorica quanto il performer stesso, l’intenzione diventa anche azione politica, eliminando, per dirla con Deleuze, “ciò che fa potere, il potere di ciò che il teatro rappresenta (i Re, i Principi, i Padroni, il Sistema)”. E’ qui il punto nel quale si colloca la centralità dell’inorganico per Carmelo Bene – e dove il saggio giunge al culmine della sua argomentazione – ovvero dell’utilizzo della tecnologia come protesi sensoriale, dell’inorganico come “simulacro sintetico del linguaggio”, il quale, spezzato finalmente ogni linguaggio codificato, raggiunge la vita e ricrea il teatro.
Vincenza Di Vita, Un femminile per bene. Carmelo Bene e le Ma-donne a cui è apparso, Mimesis, Filosofie del Teatro, 2019 euro 12,00