Il sogno di una cosa, tra parole e musica

a Catania Elio Germano e Teho Teardo
rileggono il primo Pasolini

 Spettacolo  liberamente tratto dall’omonimo capolavoro di Pier Paolo Pasolini, produzione Infinito Teatro di Pierfrancesco Pisani e Argot Produzioni, in co-produzione con Fondazione Teatro della Toscana, con il contributo della Regione Toscana.

Il primo romanzo di Pier Paolo Pasolini esce per Garzanti nel 1960 con il titolo Il sogno di una cosa, espressione tratta da un passo di una lettera di Marx riportata all’inizio del volume. Il racconto era stato elaborato e ambientato tra il 1948 e il 1949 e risente nella tematica della condizione contadina e di lotta per le rivendicazioni del clima neorealstico, ma la mitizzazione del mondo contadino come fondo ancestrale di scoperta di un mondo epicizzato allontana l’occhio dello scrittore, ancora alle sue prime prove, dallo sguardo militante del Neorealismo. Nel ‘42 Pasolini aveva pubblicato a Bologna le Poesie a Casarsa, scegliendo il dialetto friulano come codice dell’anima (la lingua della madre). Nel sogno di una cosa, anche se l’ambientazione è sempre quella dei luoghi, i paesi, i campi del Friuli, per una narrazione lo scrittore si avvicina all’italiano standard, per quanto popolare perchè i protagonisti sono giovani contadini che vivono un passaggio storico difficile e pieno di miseria e contraddizioni.

Prima di tutto si tratta di un romanzo sull’amicizia -il tema centrale nei romanzi successivi e di maggior successo- i tre ragazzi, Nini, Eligio e Milo, poco più che adolescenti consolidano il loro rapporto attraverso le prime esperienze di gioia, di balli, di spensieratezza e bevute dopo i lunghi anni della guerra. Il mondo contadino è, per Pasolini, depositario di una bellezza inconsapevole non corrotta, primitiva. Ma questa ebbrezza di vita si scontra presto contro l’amara contingenza della miseria, della fame nera che costringe i ragazzi a cercare un lavoro in Jugoslavia. Comincia così a maturare il loro sogno di una cosa. “Là c’è il comunismo, quello vero”, si dicono, e partono, a piedi, tentando di varcare il confine come clandestini. Il sogno fallirà presto, dopo mesi di disperati tentativi e di fatica e avvilimento. Torneranno indietro, a casa, dove “un piatto di ceci e di polenta si trova sempre”. Torneranno nel momento in cui le lotte per l’applicazione del lodo De Gasperi nato per abbattere il latifondo (il primo titolo del romanzo era, infatti, I giorni del lodo De Gasperi), si fanno più accese. I ragazzi sono fra i più decisi e combattivi fino a un certo punto, fino a quando non sfuma anche l’altro sogno, la loro idea di libertà e felicità. Piano piano, vengono integrati, Nini va a lavorare in una polveriera, trova una ragazza, avvilito si ubriaca la sera, ed Eligio, logorato dal lavoro in una cava, muore consumato, come i “carusi” che il siciliano Verga aveva fatto conoscere nella prima letteratura verista.

Questo testo, certamente fra i meno noti di tutta la sterminata produzione pasoliniana, è stato proposto, il 7 luglio, da  Zo Centro culture contemporanee di Catania presso la Corte “Mariella Lo Giudice”del Palazzo della Cultura di Catania, in una forma davvero originale con lo spettacolo teatral-musicale “Il sogno di una cosa” di e con Elio Germano e Teho Teardo.

Lo spettacolo è una produzione Infinito Teatro di Pierfrancesco Pisani e Argot Produzioni, in co-produzione con Fondazione Teatro della Toscana, con il contributo della Regione Toscana ed è stato inserito  nel cartellone estivo “Catania Summer Fest”, promosso dal Comune di Catania.

Un attore, fra i più bravi, i più eclettici del panorama teatrale e cinematografico italiano, e un musicista, compositore hanno scelto i loro linguaggi, le loro reciproche cifre comunicative per riscoprire quella vicenda antica, lontana nel tempo, quella storia così pulita e così limpida da non essere sporcata da strumentalizzazioni politiche o ideologiche, ma, per questo, viva per noi. Hanno usato le parole di Pasolini, lette dall’attore romano con la sua voce che assume una leggera cadenza settentrionale mai caricata, con le sue movenze e la mimica facciale,  e un commento musicale modernissimo, quasi new age, eseguito con vari strumenti usati da entrambi gli artisti che si presentano al pubblico dietro due scrivanie, illuminate da una debole lampada. Germano legge da fogli che poi getta a terra, come a volerli allontanare, e Teardo, dietro due tastiere di pc e un sintetizzatore, riproduce melodie e suoni. Alcuni strumenti sono in mano anche all’attore che, con un organetto o un piccolo triangolo, una campana, aggiunge voci alla sua voce. Come in un film muto alla rovescia, in diretta davanti allo spettatore c’è la voce narrante di Elio Germano, i passaggi più concitati del racconto (la fuga verso il confine, il ritorno, l’assedio alla casa dei padroni,  le bevute all’osteria) sono affidate a registrazioni che costringono lo spettatore ad immaginare la scena, e la musica interviene a sostituire le parole, ad esprimere emozioni, a completare la vicenda semplificando e amplificando. Come sul finale, quando la bara di Eligio viene accompagnata dal suono delle campane tibetane, strumento presente in scena accanto al compositore.

Così quello a cui abbiamo assistito nella  corte barocca del Palazzo della Cultura non è stato un reading con accompagnamento musicale, come ci aspettavamo, come siamo abituati a vedere, ma uno spettacolo, “teatral-musicale” costruito, con tecniche miste, mescolate e in armonia, a volte stranianti. Il taglio, necessario, che è stato operato ha visto sacrificare alcuni passaggi, alcuni personaggi (Cecilia), ma il testo è stato valorizzato e regalato ad un pubblico accorso numerosissimo.

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