Il Giorno del Ricordo. Le foibe e l’esodo giuliano-dalmata: una questione controversa

Potremmo iniziare con due classiche domande che gli storici di professione si pongono davanti alla istituzione delle giornate di memorialistica come il Giorno del Ricordo. Come ha scritto qualcuno: “Possiamo accettare che lo Stato e la politica impongano rituali civili e verità storiche su alcuni eventi traumatici nazionali costruendo una religione civile senza il contributo scientifico degli storici? Per quale motivo a un certo punto si è inteso commemorare le vittime delle Foibe e l’esodo giuliano?Assumendo come data simbolica il 10 febbraio 1947 – quando fu firmato il Trattato di Pace che impose il definitivo assetto geopolitico all’Europa postbellica – il Giorno del Ricordo fu istituito dal Parlamento italiano nel 2004 per non dimenticare i giorni del terrore jugoslavo a Trieste e nella Venezia Giulia.

Nelle foibe, le profonde buche naturali del Carso, l’altipiano alle spalle di Trieste, furono uccisi e gettati migliaia di italiani. La vendetta delle truppe comuniste di Josip Tito si abbatté su di loro per l’occupazione del loro paese da parte dei soldati italiani e tedeschi durante la Seconda guerra mondiale. Il primo maggio del 1945 gli jugoslavi avevano raggiunto per primi Trieste mentre i soldati britannici arrivarono nel capoluogo giuliano il giorno dopo. In quei giorni di estrema confusione i titini arrestarono molti fascisti e collaborazionisti italiani conducendoli nei campi di concentramento oppure uccidendoli e infoibandoli. Le vittime della violenza che si abbatté sul confine orientale italiano furono presumibilmente attorno a 6.000. A morire non furono solo i fascisti, ma nelle foibe finirono partigiani italiani che avevano combattuto contro i nazifascisti, e anche membri del Partito comunista italiano contrari alle mire espansionistiche jugoslave, espressione di un nazionalismo estremo. Al dramma delle uccisioni ne seguì un altro: l’esodo degli istriani e dei dalmati. Trecentomila profughi lasciarono le terre slave per rifugiarsi in Italia. Per decenni gli italiani seppero poco di queste tragedie. I motivi furono dettati dai nuovi equilibri mondiali. Nel secondo dopoguerra si stava entrando nella fase dello scontro ideologico dettato dagli interessi contrastanti delle due massime potenze vincitrici, l’URSS e gli USA. I comunisti italiani tacquero per fratellanza coi “compagni” jugoslavi; la Democrazia Cristiana che governò a lungo il Paese, silenziò tutto per opportunismo: nel 1948 Tito aveva rotto i rapporti con Stalin, dunque la Jugoslavia era ora considerata in qualche modo amica. Il MSI, fondato da fascisti, non ricordava volentieri che la vendetta degli slavi era stata causata dall’oppressione delle minoranze durante la dittatura di Mussolini e che l’Italia aveva occupato la Jugoslavia durante la guerra compiendo atti di violenza indicibile. Solo dopo il crollo dei regimi comunisti nell’est Europa, avvenuta dopo la caduta del Muro di Berlino (1989), si cominciò a parlare a livello nazionale della tragedia avvenuta nella Venezia Giulia. La violenza delle Foibe non è giustificabile, tuttavia è necessario risalire alle radici dellodio tra slavi e italiani per capire come tutto ciò sia stato possibile. Nelle terre di confine del nord-est, abitate da secoli da popolazioni miste, slave e italiane, come la Venezia Giulia, l’Istria e la Dalmazia, avvenne qualcosa di veramente terribile. Tuttavia, per capire, è fondamentale contestualizzare. Se si vuole essere “scientifici” si deve risalire alle radici della violenza, che risalgono almeno alla seconda metà dell’800 quando nell’Impero asburgico si confrontavano i nazionalismi contrapposti di italiani e slavi, aizzati ad arte dalla autorità austriache per evitare l’irredentismo dei loro sudditi. Con la conclusione della Grande Guerra e la conquista della Venezia Giulia l’Italia cominciò un’attività di oppressione della minoranza slovena, fortemente accentuatasi durante il fascismo con l’italianizzazione forzata e violenze di ogni genere. Credo sia necessario ribadire come spesso la Storia venga piegata ad uso della politica. Solo con la caduta dell’Unione Sovietica e la dissoluzione della Jugoslavia si è potuto “narrare”, è vero, la storia degli italiani infoibati, dimenticando, però, che era necessario anche raccontare le crudeltà subite dagli sloveni fino alla Seconda guerra mondiale. Uno stimolo a capire meglio ci può venire da alcune riflessioni storiografiche. Lo storico Tony Judt, morto da pochi anni nei suoi lavori ci ricorda continuamente come i governi cosiddetti liberi e democratici ignorino la storia spesso volutamente. Avvalendosi spesso del sostegno dei grandi organi di stampa, lanciano campagne sul “dovere della memoria”, come avviene per il nostro 10 febbraio. In realtà queste giornate sono rappresentazione in pillole selezionate di una storia dalle sofferenze individuali, che serve più a scopi politici interni che a capire veramente il nostro tempo. Negli ultimi anni, una messe di storici improvvisati, ma soprattutto giornalisti e politici cavalcano questa onda revisionista, volta a mettere in discussione – per motivazioni politiche ed elettorali – la ricerca storica che sola può contribuire a rafforzare una reale e duratura coscienza civile. La ricerca storica è una faccenda troppo seria per lasciarla nelle mani di improvvisatori o di politici in cattiva fede. I fatti si ricostruiscono scientificamente, poi si interpretano attraverso la cultura e le proprie passioni. La questione, insomma, non è solo raccontare quel che è accaduto, quanto la trama narrativa del ricordo e la sua trasformazione in racconto per la storia. Soprattutto se non teniamo conto del punto di vista dell’altro, in questo caso lo slavo. Fare storia necessità di strumenti che rendano più oggettiva possibile la ricostruzione delle vicende. Affiancato dagli strumenti della ricerca storiografica è necessaria una nuova “didattica”, non pilotata dalla politica. Bisogna trovare i mezzi giusti per e-ducare (tirar fuori da sè), perché “fare storia” è ricerca problematica, non un dato di fatto immutabile consegnatoci dall’alto da qualcuno, autorevole o, peggio, autoritario, quasi come un atto di fede.

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