Cocuzzo, la montagna-arca: “Viaggio al monte analogo” di Mauro Francesco Minervino

Il sole stava inabissandosi

e la lunga striscia dei monti appariva

improvvisamente inaugurata da una luce marina color pervinca,

un blu purpureo e intenso.

Da lontano rivolsi un ultimo sguardo verso quelle montagne della Calabria.

Sono rimasto a lungo a guardarle pensando a cose inesprimibili.

G. Gissing, Viaggio in Grecia

Ogni volta che la natura mostra tutta la sua potenza rimaniamo prostrati, stupiti, e poi feriti nella nostra vanagloria di moderni uomini tecno-digitali. In passato era diverso. Vulcani, montagne, abissi, foreste, fiumi e mari suscitavano da millenni la paura, il terrore. Eppure a partire dal Settecento essi cominciano ad ispirare anche l’idea di una travolgente bellezza che può aprire cuore e mente a nuove visioni dell’esistenza umana. Partendo dal Burke di «Inchiesta sul bello e il sublime», Kant apporta la novità che «l’esperienza di sgomento di fronte ad una natura infinitamente potente (…) dava luogo, dopo la prima ammissione della nostra debolezza, ad un’esaltazione della nostra superiorità morale.» Sulla scia kantiana de «il sublime come piacere negativo» si avvia il nuovo percorso nell’arte seguito dai pittori del romanticismo (Friedrich, Church, Turner, Martin, Géricault, Delacroix…), ma anche nella letteratura (Hugo, Byron, Poe e Novalis…). Il sublime mette l’uomo di fronte all’orrore, a un regno in cui le sicurezze quotidiane sembrano stravolte e alla certezza che esiste una dimensione cosmica, un infinito naturale di cui, in qualche modo, egli partecipa. Il sublime, insomma, non è l’immenso deserto, il mare tempestoso o i monti ghiacciati che lasciano spaventati per la loro immensità o per la loro potenza distruttrice, ma è il riflettere, grazie ai fenomeni naturali, sui problemi che affliggono l’uomo, sulla sua posizione nei confronti del mondo, sull’immortalità dell’anima e su Dio. In Viaggio al monte analogo. Monte Cocuzzo. La montagna-arca (Oligo ed., pp. 139, €13), Mauro Francesco Minervino compie, a mio parere, una operazione in qualche modo simile a quella dei romantici, con gli ovvi aggiustamenti dovuti al mutare dei tempi. Agli inizi dell’epoca romantica la rivoluzione industriale era agli albori, oggi siamo andati ben oltre. La nostra è l’era della (sur)modernità tecnologica e digitale, quella dei non-luoghi di augèniana memoria (proprio di Marc Augè Minervino è stato amico), dell’intelligenza artificiale, della crisi pandemica, della precarietà esistenziale e materiale. In questo contesto i riferimenti non possono che essere altri. Bisogna ancorare le nostre vite a un punto archidemico ben diverso. La filosofia e l’arte del passato ci soccorrono ancora ma è necessario trovare ulteriori spunti per capire chi siamo e qual è il nostro ruolo nel mondo. Così come l’attenta osservazione di luoghi naturali ispirava i romantici, così Minervino lo ha fatto per il monte Cocuzzo, una delle montagne più caratteristiche dell’Appennino, non solo calabrese, che pur con i guasti apportati dall’uomo negli ultimi decenni (manufatti in cemento) resta di straordinario fascino: «Eccola lì la grande montagna. Occupa da sola mezzo cielo; alta, solenne, coi fianchi spioventi come una immensa piramide che si illumina da sola, sfolgorante nella luce marina del Tirreno, rilucente di neve nelle mattinate di marzo.» L’antropologo calabrese, attento studioso dei costumi dell’uomo moderno e scrittore raffinato, sa benissimo che quel che conta alla fine è l’esperienza del mondo, e non solo l’accumulo di letture e interpretazioni. Lo studio ci può sostenere nell’analisi, ma solo il cuore alla fine svela ciò che la sola ragione non può fare. Come sanno tutti i viaggiatori il corpo a corpo con la natura selvaggia si configura come scoperta di sé e della condizione umana. Per intraprendere il suo “viaggio” alla scoperta dell’autenticità dell’essere non è casuale che Minervino abbia scelto come altro suo nume ispiratore René Daumal con il suo “Monte analogo” (“La porta dell’invisibile deve essere visibile”). Se per i suoi studi e scritti resta per l’autore imprescindibile il “gemello” George Gissing, che non a caso apre il libro, Viaggio al monte analogo trova un altro suo ideale corrispondente in Paul Cézanne che dipinge ripetutamente il Monte Sainte Victoire. L’analogia è scoperta: il pittore francese ha la propria montagna, così come l’antropologo calabrese ha la sua. La vita di Cézanne come quella di Minervino, il monte provenzale come il monte calabrese. Le mille sfaccettature del Sainte Victoire dipinte negli anni da Cézanne, trovano analogia nelle innumerevoli analisi storiche, antropologiche, naturalistiche e sociali del Cocuzzo raccontato da Minervino. Si veda, ad esempio, quando l’autore racconta il suo vagare alla ricerca dell’autentico nei dintorni del suo Monte, come gli capita alla ricerca del pane di una volta. Perduto ormai quello di Mendicino, ecco ritrovarlo in un panificio sperduto di Fiumefreddo. Attenzione, però, la sua non è nostalgia, ma ricerca di «aree impervie e staccate che sopravvivono in una specie di bolla del tempo, ancora scollate dalla confusione che regna in basso verso la città o sulla costa.» Sotto questo aspetto le pagine bellissime su Pantanolungo, villaggio semi-abbandonato (e misconosciuto), sono illuminanti. «Viaggio al monte analogo», insomma, è una sorta di breviario intimista e spirituale in cui il Cocuzzo è “arca”, salvezza per il “naufrago” in cerca di un approdo tra il Cielo e la Terra: «La sua vetta ineguagliabile tocca il mondo dell’eternità, ma la sua base si ramifica in molteplici contrafforti nel mondo storico e nella vita realizzata, anche nel presente. Perciò, essa, la montagna grande e scavata, anche ai nostri occhi smarrita e di scettici contemporanei, resta la via per la quale qui l’uomo ha potuto elevarsi verso il cielo e il numinoso, per avvicinarsi alla vita materiale e avanzare sino alla storia concreta e attualeLibro di breve lettura ma di grande intensità, impreziosito da splendide foto in bianco e nero (di Minervino stesso, di Giuliano Guido e di Franco Daddo Scarpino) e arricchito da una preziosa appendice di testimonianze di viaggiatori del passato, questo «Viaggio al monte analogo» affascina perché si eleva dalla condizione esistenziale propria dell’autore a quella universale di ogni uomo che ama la propria terra fino a soffrirne.

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