LA MORTE DI STALIN al Palazzo della Cultura di Catania

Video killed the radio star

Dal 9 al 12 luglio, a Palazzo della Cultura, è andato in scena l’ultimo spettacolo della trilogia dedicata dal Tetaro Stabile di Catania a Leonardo Sciascia: La morte di Stalin con la regia di Ninni Bruschetta. Nel cast Antonio Alveario, Lydia Giordano, Luca Iacono, Manuela Ventura, Alessandro Romano. Scene e costumi di Riccardo Cappello, luci di Gaetano La Mela.

Il racconto di Sciascia venne pubblicato nel 1958 ed è una riflessione sulla storia, la grande storia che riguarda la Seconda guerra mondiale, la Guerra Fredda e la politica italiana dal Dopoguerra agli anni della ricostruzione, vista da una prospettiva marginale, provinciale, distante, molto distante dalla dimensione internazionale che le vicende ripercorse affrontano.

Il fuoco di questa prospettiva è Regalpetra, il paese che Sciascia aveva collocato al centro di uno dei suoi primi racconti, Le parrocchie di Regalpetra, appunto. Il protagonista è Calogero Schirò, che guarda e racconta i grandi eventi da quella posizione sfocata e marginale di un paese della Sicilia, solo leggendo ciò che arriva attraverso i giornali e i commenti nella sede del partito o nella sua bottega di artigiano. Egli deve immaginare tutto e per questo si crea una sua versione dei fatti, a cominciare dal suo idolo, Stalin, che definisce familiarmente “Zu Peppe”. Lo sogna, appende il suo ritratto in bottega, lo giustifica in tutte le azioni, lo esalta come nemico del nazismo, liberatore dell’Europa, e se ne crea una figura perfetta frutto dell’immaginazione e della necessità di proiettare nella storia le sue idee politiche. La trovata letteraria di Leonardo Sciascia nel concepire il plot della Morte di Stalin è quella di esprimere tutte le sue critiche, il suo dubbio da osservatore illuminista, in una sorta di indagine involontaria in cui Schirò apprenderà di tutti gli errori commessi, delle nefandezze, delle epurazioni compiute da Stalin, dalla comunicazione indiretta che deve accogliere, comprendere, accettare o rifiutare.

Questo racconto, al contrario di molti altri, non è una storia di ambiente siciliano, ma una storia di ambiente siciliano diventata esemplare (La Sicilia come metafora): lo stalinismo appartiene a milioni di uomini che hanno vissuto la storia come Schirò, cioè senza esserne parte e sostituendo alla realtà una prospettiva mitizzante, lavorando di immaginazione.

Partendo da questo punto preciso del racconto, mettendo a fuoco l’elemento dell’immaginazione, nello spettacolo andato in scena a Catania, il regista messinese, scrittore ed attore, Ninni Bruschetta, ha realizzato una trasposizione teatrale intelligente, dove ha espresso una sua idea originale ma non ha mai forzato il testo o tradito l’autore.

L’immaginazione può avere un altro filtro, lo ha da tempo, ormai che i media si sono moltiplicati e la grande storia passa da mezzi sempre più assordanti, cinici, condizionati; le guerre del presente (orrende, ingiuste, infinite e disumane) arrivano quotidianamente a noi, spettatori distanti, mascherate in una narrazione-spettacolo.

Così Bruschetta ha costruito un contenitore contemporaneo, a tutti noi molto usuale, e ha inserito il racconto del La morte di Stalin di Sciascia in un contesto in cui quella prospettiva del calzolaio di Regalpetra si colora di luci, di riflettori, le voci sono amplificate da microfoni, un talk show televisivo con la subrette che si finge giornalista ma si occupa solo di esibire gambe e sorrisi, un anchorman disinibito e superficiale, musica da discoteca e mistificazione del racconto.

Il talk show è la dimensione narrativa che si aggiunge alla narrazione di Sciascia.

Un video apre lo spettacolo con le immagini della guerra e della distruzione ma da subito l’effetto straniante è dato dalla comparsa in scena, in una scena televisiva, di Antonio Alveario, Lydia Giordano, Luca Iacono, Manuela Ventura, Alessandro Romano dichiaratamente nei loro stessi panni, sulle note della bellissima canzone anni 80,  Video killed the radio star.

Lydia Giordano (di una bellezza da lasciare rapiti) e Luca Iacono animano il talk show -rivestendo anche un doppio ruolo- Antonio Alveario è Calogero Schirò che dipinge il “suo” Stalin senza macchia a chi lo vuole portare sulla strada del dubbio e racconta i suoi sogni, le sue certezze ingenuamente davanti a chi lo intervista e sventola un pugno chiuso, come per aggrapparsi ad una fede incondizionata. Manuela Ventura è la moglie di Calogero, si fa carico di una parte del racconto, giustifica le azioni del marito e lo assiste nel momento della delusione. Contemporaneamente riveste i panni di Stalin nei sogni del marito, caratterizzando il grande statista sovietico con un’inflessione napoletana (perché nei sogni tutto è trasfigurato) e con la la verve ironica che le appartiene. Alessandro Romano, nei panni di un compaesano e dell’Onorevole è un deuteragonista che svela le verità, come la notizia della morte di Stalin e, soprattutto, il rapporto Kruscev e la conseguente destalinizzazione dell’URSS.

Alla fine tutti i personaggi ballano con le stesse movenze, appiattiti sulle note di un ritmo disco, un’ espressione di plastica come marionette sorridenti.

Un prodotto teatrale intellettualmente sofisticato e raffinato nella forma dello spettacolo, che ha il merito, oggi, di riproporci la riflessione sciasciana ma, anche, una satira sottile sui nostri tempi dove la realtà (anche la più tragica) e la storia sono costantemente spettacolarizzate, quindi falsate, quindi appiattite sul mainstream del momento.

 

 

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