L’ultima estate

Al teatro Stabile di Catania L’ultima estate di Claudio Fava,

regia Chiara Callegari con Simone Luglio, Giovanni Santangelo
voce fuori campo Luca Massaro

 scene e costumi Simone Luglio musiche originali di Salvo Seminatore disegno luci Massimo Galardini
produzione Teatro Metastasio di Prato in collaborazione con Chinnicchinnacchi Teatro e Collegamenti

 

EROI PER FORZA

Ognuno di noi si ricorda esattamente dov’era e cosa faceva quel tiepido pomeriggio di un sabato sera di maggio, quando nelle nostre vite entrò la parola (fino ad allora conosciuta solo dai palermitani e dai siciliani che percorrono spesso l’autostrada) “Capaci”.

Una voragine enorme aveva inghiottito il giudice Falcone e la moglie, la scorta e anche tutte le nostre illusioni.

E ognuno di noi si ricorda, anche, dove si trovava in quell’afoso pomeriggio di luglio quando, una strada di Palermo divenne improvvisamente celebre: via D’Amelio. Lì un’esplosione bellica aveva fatto saltare in aria il giudice Borsellino, la scorta e quel minimo di desiderio di giustizia che ancora qualcuno aveva alimentato.

Oggi, sono passati trent’anni da quegli eventi. Trent’anni sono tanti, le generazioni si sono succedute, i ricordi sono sbiaditi, i nomi rimangono legati ad alcune immagini, murales di alcuni quartieri, sporadiche pagine sui manuali di scuola per qualche lezione di educazione civica.

Per questa ragione ci è parso nettamente necessario e incisivamente utile lo spettacolo L’Ultima estate, scritto da Claudio Fava, diretto da Chiara Callegari e interpretato da Simone Luglio (nei panni di Giovanni Falcone) e Giovanni Santangelo (nei panni di Paolo Borsellino).

Con una costruzione scenica a metà tra il teatro di parola e il documento di testimonianza, il testo inizia con le due narrazioni parallele di quei momenti, forse attesi ma, drammaticamente, definitivi.

Specularmente, come speculari sono stati nella vita, i due uomini, visti proprio nella loro umana fragilità, si raccontano.

E da lì procede, con un flashback che porta lo spettatore indietro nel tempo, la ricostruzione di tutta quella lunghissima vicenda che fu l’istruzione del maxi processo, l’indagine capillare del pool antimafia, l’isolamento all’Asinara e il lavoro durato giorni e nottate per trovare prove schiaccianti che portassero a condanne certe, senza possibilità di assoluzioni o rinvii.

Giovanni Falcone, con il suo entusiasmo, Paolo Borsellino con la sua fede incondizionata nello Stato, lavorano nelle condizioni più difficili, ascoltano orribili testimonianze di uccisioni, eliminazioni di cadaveri, guerre vere e proprie. Ma non sono eroi. Il ritratto che ce ne fa Claudio Fava non è quello di due eroi tutto d’un pezzo. Qui sono servitori dello Stato che devono mettere da parte la loro paura, la esorcizzano indossando una corazza di ideologia e legalità e vanno fino in fondo.

Furono traditi da quello Stato che loro servivano. Prima si demolì la loro immagine pubblica, si insinuarono, soprattutto su Falcone, veleni fatti di calunnie e dubbi. Ed è lì che cominciarono a morire. “Si muore quando si resta soli” recita Giovanni Santangelo nel ruolo di Paolo Borsellino.

Dal primo “attentatuni”, dalla morte di Falcone, al secondo, alla morte di Borsellino, passarono due mesi.

Cosa deve essere stato per lui, per Paolo, quel sabato pomeriggio? Quella sconfitta, quella perdita del suo amico-fratello e la consapevolezza della violenza estrema di quell’atto? Quale deve essere stata la sua rabbia, il suo tormento, il suo terrore? E la profonda solitudine nella quale si trovò?

In questa solitudine aveva deciso di continuare, di testimoniare, di raccontare. Aveva annotato tutti i nomi, i rapporti, i passaggi, i riferimenti che avrebbero dovuto portare più in alto di dove era arrivato Giovanni, ai mandanti, ai veri capi dentro i ministeri. Tutto era dentro un’agenda rossa. La famosa agenda rossa mai ritrovata che, qui, vediamo sulla scrivania.

Sono stati uccisi uno dopo l’altro i due giudici, trent’anni fa (molto toccante la scena in cui si inseguono, come in un sogno, dopo la morte di Giovanni, con la musica di sottofondo della celebre aria di Hendel Lascia ch’io pianga).

Sono stati uccisi, insieme, una nuova volta – questo ci ricorda il finale- quando, il 23 settembre del 2021 la sentenza della Corte d’assise d’appello di Palermo sancì che c’era stata una “trattativa” tra lo stato –la maiuscola sarebbe troppo qui- e la mafia, ma questa non costituiva reato.

E’ difficile trovare gli aggettivi giusti per definire l’interpretazione di due attori soli sulla scena che incarnano eroi vinti.  Innanzi tutto, potrebbe sembrare banale dirlo, la somiglianza fisica sorprende. Simone Luglio è un Giovanni Falcone dalla fisicità forte, un po’ trasandato, ma col sorriso bonario e gli occhi allegri di chi è nel giusto. Canticchia l’incipit di Bella ciao, si racconta e si confessa, consegnando al pubblico l’eco della sua paura al primo attentato fallito e facendo vibrare le corde di chi quel pomeriggio di maggio aveva pianto.

Giovanni Santangelo è un Poalo Borsellino elegante, stretto nel suo senso del dovere con la voce che assume timbri via via più forti man mano che la rabbia lo spinge ad agire. La cadenza palermitana in entrambi è come una melodia che li caratterizza.

Due personaggi speculari, due attori complementari guidati in forma asciutta dalla regia di Chiara Callegari.

Una scenografia essenziale (curata dallo stesso Luglio) con una scrivania, una macchina da scrivere Lettera 22, uno schedario, da quale vengono fuori piccole lampade con le date degli eventi per riportarci indietro e, ahimè, anche nel presente.

Resta l’amarezza più dolorosa nella risata ironica con cui le due anime, i due fantasmi, decidono di scendere in spiaggia, di fare un bagno nel mare incontaminato dell’isola dove avevano trascorso mesi, insieme in un sodalizio di lavoro e di vita. Loro che quella vita l’hanno sacrificata e oggi dobbiamo dire…. no, non voglio dirlo.

Eroi per forza.

LOREDANA PITINO

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