Madama Butterfly di Giacomo Puccini al Teatro Massimo Bellini di Catania
Tragedia giapponese in tre atti, libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa
“La mia Butterfly è l’opera più sentita e più suggestiva che io abbia mai concepita!” con questa frase Giacomo Puccini commentò il terribile insuccesso riscontrato dall’opera Madama Butterfly alla prima esecuzione alla Scala di Milano, nel febbraio del 1904. Il pubblico non aveva capito, non aveva apprezzato le innovazioni musicali e l’impianto poco epico di una tragedia così intima.
Negli anni successivi Puccini lavorò a lungo sullo spartito (tratto dal libretto scritto da Luigi Illica e Giuseppe Giacosa), cambiò la partitura nel momento del suicidio della fanciulla, aggiunse l’aria del tenore Addio fiorito asil, e l’opera venne via via accolta fino a diventare un successo mondiale, quel successo mondiale che riscuote ancora oggi, dopo un secolo, tanto da essere una delle opere più rappresentate al mondo.
Il Teatro Massimo Bellini di Catania, nella sera dell’11 aprile, come terzo spettacolo della stagione 2025, ha inaugurato la sua nuova produzione di Madama Butterfly, affidando la regia a Lino Privitera (che torna a cimentarsi con Butterfly per la seconda volta, dopo il 2019, nel teatro lirico della sua stessa città), la direzione d’orchestra ad Alessandro D’Agostini, le scene e i costumi ad Alfredo Corno; maestro del Coro Luigi Petrozziello, Coro e Orchestra del Teatro Massimo Bellini.
La regia di Lino Privitera ha regalato al pubblico un’esperienza di buon gusto, raffinatezza, sapienza e originalità, senza alcun cedimento ai narcisismi a cui, purtroppo, siamo ormai abituati, ma fondendo tradizione e innovazione.
La scena si apre con un’immagine silenziosa e suggestiva: Cio-Cio-San si allontana dalle anime dei suoi antenati, rappresentate da sei danzatori ispirati allo stile butoh: sono i suoi antenati, gli Ottoke, che lei ha salutato andando alla missione e “ripudiando” la religione giapponese. Questo momento iniziale, arricchito da un volo di farfalle origami, crea un legame narrativo con tutta la storia fino al finale. L’intuizione di Privitera è una sottile suggestione espressa, però, con la grazia di un artista che è, prima di tutto, un coreografo. Per questo la coreografia arricchisce la messa in scena, in maniera nuova, ma, assolutamente, pertinente, e diventando allegoria di tutta la vicenda. Rendendo omaggio alla millenaria cultura giapponese, il regista, utilizzando la tecnica della danza butoh (i movimenti atletici, l’uso di coturni, i corpi nudi e dipinti dei ballerini), ha recuperato le figure emblematiche dell’antica arte delle xilografie, le stampe illustrative, in particolare quelle su legno, perché i colori della scenografia e dei costumi, tenui, sfumati, con le tinte della terra e della pietra, la luminosità eterea, le sfumature dell’ intera ambientazione, tuffano lo spettatore direttamente dentro un ukiyo, uno di quelli di Hokusai, per esempio, con il ramo pendente che disegna trame scure nel cielo, o un Bijin-ga
Nessun cedimento al rischio di una ricostruzione patinata o folklorica (tante volte vista), quasi nessun esotismo, ma una dimensione domestica e intima dove la tragedia della giovanissima fanciulla abbandonata si colloca nella critica all’imperialismo marcata da Puccini, ma ottiene una universalità che riguarda il disinganno di una donna innamorata, totalmente votata al suo uomo e tradita. Per questo è altrettanto interessante la scelta di fare apparire Cio Cio San, sposata a un uomo americano, con un grande crocifisso al collo, segno della sua nuova appartenenza alla “casa americana”.
La direzione musicale di Alessandro D’Agostini ha guidato l’orchestra del Teatro Massimo Bellini con precisione e sensibilità, esaltando le sfumature emotive della partitura pucciniana, complessa ed certamente moderna per le innovazioni introdotte. La citazione dell’ Inno americano, come scelta precisa del musicista toscano per esprimere la sua critica al colonialismo (quanto sono attuali oggi le battute di Pinkerton sulla grandezza dell’America?), la dissonanza che interrompe la melodia, laddove si passa dal tema dell’amore di Cio Cio San ai commenti dell’ufficiale con il console, un coro a bocca chiusa che rappresenta l’attesa e la notte, sono le caratteristiche di una sperimentazione che fa di quest’opera un unicum assoluto, pertanto prezioso. Questa preziosità è stata sottolineata dalla cura del Maestro D’Agostini e dalla consolidata perizia dell’Orchestra dell’ente lirico etneo affiancato dal coro guidato dal Maestro Petrozziello.
Nel ruolo di Cio-Cio-San, il pubblico attendeva il soprano Valeria Sepe che, purtroppo, ha dovuto essere sostituita per indisposizione. Al suo posto Monica Zanettin, ha offerto una performance intensa e commovente, esprimendo con maestria la fragilità e la determinazione del personaggio. Accanto a lei, Leonardo Caimi ha interpretato B.F. Pinkerton con una vocalità non sempre e non del tutto potente e una prova attoriale un po’ statica, tranne nella scena finale dove il padre abbraccia il figlio dopo il suicidio della piccola Butterfly. Laura Verrecchia, nel ruolo di Suzuki, ha fornito un supporto vocale solido e una sentita interpretazione, mentre il basso Luca Galli ha dato vita a uno Sharpless equilibrato e riflessivo con timbro profondo che ha reso intensamente umano il ruolo.
L’emozione sulla scena finale è fortissima, l’harakiri di Cio Cio San, coi lunghi capelli neri sciolti e la veste chiara, è il sacrificio estremo di chi non sopporta il dolore e l’umiliazione, di una madre che deve cedere il figlioletto ma non cede al ricatto della società che l’ha isolata e della miseria che l’attende. Accanto a lei i sei danzatori riproducono i suoi movimenti, come proiezioni dell’azione e figurazione del valore di un gesto estremo. Dopo la romanza con la quale la giovane saluta il frutto del suo amore, sfila dalla custodia il pugnale del padre sul quale è inciso “Con onor muore chi non può serbar vita con onore”, si chiudono le colonne di bamboo che isolano il confine di uno spazio intimo ma sacro. Pinkerton arriva, tardi, e resta fuori da un altare di morte.
Con un’operazione di questo tipo si rende omaggio al melodramma, si celebra il rito dell’opera lirica che non accetta mistificazioni e manie di protagonismo, ma richiede umiltà e sapienza, ingegno e fantasia, rispetto del musicista (soprattutto Puccini che detta ogni movimento, ogni didascalia, con le note) e del libretto, che ha un linguaggio contestualizzato e preciso.