LA TRAVIATA al Teatro Massimo Bellini di Catania

Al Teatro Massimo Bellini di Catania è approdata, dal 1 al 9 dicembre, in conclusione della stagione 22/23,  la “Traviata degli specchi”, il sontuoso allestimento con  la regia di   Henning Brockhaus  e la scenografia di  Josef Svoboda, appunto tutta basata su un gioco di specchi.

L’allestimento fu messo in scena per la prima volta per lo Sferisterio di Macerata    nel 1992, e da allora è stato da sempre considerato fra le più belle e innovative interpretazioni di Traviata.

In primo piano l’Orchestra e il Coro dell’ente lirico etneo. Sul podio José Cura, tenore e direttore d’orchestra di statura internazionale. Maestro del coro Luigi Petrozziello; costumi di Giancarlo Colis, coreografie di Valentina Escobar, luci dello stesso Brockhaus Allestimento della Fondazione Pergolesi Spontini di Jesi e dello stesso Sferisterio di Macerata.

Nel ruolo di Violetta  il soprano catanese Daniela Schillaci, in quello di Alfredo il tenore Giorgio Misseri, in quello di Giorgio Germont il baritono Franco Vassallo.

La vicenda di Traviata è più che nota, sappiamo tutti che Verdi trasse lo spunto dal dramma di Alexandre Dumas (figlio), La dame aux camelias,  a sua volta tratto dall’omonimo romanzo pubblicato nel 1848.

Dumas aveva scelto di raccontare un soggetto a lui contemporaneo, ambientandolo nel presente e affrontando problematiche moderne. Fu molto criticato per questo realismo, ma anche molto lodato.

Scegliendo questo soggetto, affidando il libretto a Francesco Maria Piave,  Verdi aveva accantonato i grandi temi romantici legati a un remoto passato storico, e decise di affrontare un problema sociale dibattuto all’epoca, quello della prostituzione e dell’ipocrisia perbenista borghese che coi suoi pregiudizi può condurre alla tragedia personale.

Per la premiere alla Fenice di Venezia, nel 1853, era stato chiesto a Verdi di spostare l’ambientazione  nel Primo Settecento per edulcorare, così, il messaggio di aspra critica sociale dell’opera. Il compositore non accettò perché voleva mantenere l’epoca del dramma di Dumas e concentrarsi su Parigi, metropoli moderna, simbolo di progresso e di contraddizioni sociali e morali. La prima, infatti, fu accolta tiepidamente sia dal pubblico che dalla critica.

Sotto l’aspetto formale, musicale, La Traviata si avvicina alle opere precedenti (Rigoletto è di pochi anni prima), per la presenza di lirici adagi, esuberanti cabalette, lunghi duetti e grandiosi movimenti corali. Ma qui l’ambientazione nel demi-monde parigino è sottolineata in modo ossessivo tramite il più semplice degli espedienti musicali, un continuo riferimento al simbolo per eccellenza della velocità e dell’incertezza che caratterizzavano la società ottocentesca: il valzer.

La partitura della Traviata satura di musica l’opera e, soprattutto, invade la stessa protagonista: l’intera personalità musicale di Violetta è concepita a ritmo di valzer.

A ritmo di valzer, più veloce o più lento, allegro o lugubre, si muove tutta la vocalità di Violetta, dai trilli virtuosistici della cabaletta “Sempre libera” all’andamento lento e funereo dell’aria “Addio del passato”, che prosegue lungo la stessa linea anche se si adatta alla debolezza della giovane malata di tisi. Il ritmo del valzer è ancora presente, anche se esitante, nell’accompagnamento del finale dove il triste corno inglese completa le frasi della fanciulla man mano che le forze la abbandonano.

Le qualità richieste a un soprano che deve interpretare Violetta sono molteplici: tecniche fino al virtuosismo, con toni timbrati e scuri nei passaggi drammatici e cristallini nei momenti di euforia, di gioia e di innamoramento, ma anche attoriali perché la protagonista di questo,  che è il melodramma dei melodrammi, è un personaggio tragico che porta un enorme peso di emozioni e pietas che deve saper suscitare nello spettatore. Daniela Schillaci, nell’edizione di Catania, sotto la sapiente bacchetta del direttore Cura, ha incarnato tutto questo e molto di più. Voce cristallina ma esperta, sostenuta dalla perizia e dall’esperienza che fa di lei una delle migliori esponenti del bel canto italiano. Grande attrice padroneggia la scena su questo duplice fronte degli specchi; si muove con grazia e compostezza, interpreta ogni singolo passaggio musicale con sicurezza, passando dalla danza del primo atto alla profondità disperata del secondo, all’umiliazione peggiore nel terzo, alla inesorabile tragicità della malattia e della  morte imminente.

La misoginia del romanzo di Dumas era già stata attenuata dallo stesso autore francese nel dramma teatrale; la versione vocale di Violetta, grazie alle scelte musicali di Verdi, è quella di una protagonista, antagonista del mondo maschile patriarcale, scolpita con carattere e determinazione nella scelta di amare chi vuole e di compiere l’estremo sacrificio.

Quanto lei debba subire il compromesso, i dettami ciechi di un mondo più forte e che le si impone, Verdi lo chiarisce, anche qui, con indicazioni simboliche. Dal punto di vista musicale il soprano è privo di iniziativa: il brindisi iniziale viene lanciato da Alfredo e la voce femminile lo riprende e lo amplifica dopo. Nel successivo duetto d’amore il tenore espone i temi principali che il soprano, poi, rovescia e arricchisce. (Il tenore che veste i panni di Alfredo in questa riedizione è Giorgio Misseri, voce che appare fragile, forse di fronte alla potenza della Schillaci, tecnicamente corretta ma debole, e piuttosto rigido nei movimenti).

E’ vero, anche, che ogni volta è come se l’interlocutore, tenore o baritono, le offrisse lo spunto e poi lei, la protagonista, la donna del titolo, il soprano, lo sublimi. Il brindisi, il duetto del primo atto e del secondo con Germont, contengono melodie adatte alla Violetta vocale, che le abbellisce, le fa esplodere, le esalta, le intride di emozioni pure. Qui sublimate dalla Schillaci.

Il duetto del secondo atto, in particolare, è strutturato con una modulazione sorprendete, passaggio dopo passaggio. All’aria “Pura sì come un angelo”, soave, regolare, con ampi movimenti sostenuti dagli archi, che rispecchia la razionalità e la convenzionalità del mondo di Germont., qui interpretato da Franco Vassallo, voce calda e rassicurante, convincente interprete, Violetta risponde con l’aria “Non sapete quale affetto” in evidente contrasto, con una successione di brevi frasi molto rapide, con salti e bruschi cambiamenti di dinamica.

Ma quando Violetta cede e accetta “il sacrifizio”, avviene un capovolgimento musicale, la sua aria “Dite alla giovane” è straziante; in partitura Verdi scrive l’indicazione “piangendo” ma lui ha fatto piangere già la melodia che si fa lenta, funerea, dolcissima. Germont risponde riprendendo ritmo, con frasi spezzate, anche dalla sua commozione, e dalla compassione che lo spinge a costatare il dolore della fanciulla; “Piangi, o misera” le dice, come confortato dalla scelta della donna e ipocritamente compassionevole. La potenza di questo duetto è tutta qui: in un conflitto morale e sociale che la musica rende unico e allegorico.

Sul finale, di fronte alla morte imminente, sconfitta da male, Violetta  vedrà ai suoi piedi, implorante perdono,  Alfredo e il padre, artefice del suo dolore, e l’amore , se pur per brevissimo tempo, trionferà. L’arte di Verdi ci dice che, almeno in quel mondo fittizio articolato dalla musica, qualsiasi rapporto di potere è fragile. Questo il suo messaggio universale, questa la commozione che, volta per volta, La Traviata ci suscita, sempre fino alle lacrime.

Questo allestimento risponde decisamente a una intuizione geniale, l’idea degli specchi giganteschi che raddoppiano la scenografia, in realtà essenziale, con pochi elementi concreti (cuscini, poche sedie, un letto), proiettano fondali che, in realtà, sono tappeti, fanno vedere di ogni personaggio anche il suo doppio, proiettando concretamente l’idea dell’ipocrisia, della finzione di un mondo fatto di convenzioni e falsità. E’ una soluzione che rende sontuoso l’essenziale, che crea l’illusione ottica della molteplicità nelle scene del primo atto,  prima e della casa di Flora poi, con un tripudio di costumi e stoffe rosse, ma amplia anche l’idea della solitudine raddoppiando gli spazi. Quando, sul finale, nel momento esatto in cui Violetta sente cessare gli spasimi e, convinta di tornare a vivere, esala, con un magnifico acuto, l’ultimo respiro, allora questi giganteschi specchi cambiano la loro curvatura, si sollevano e riflettono l’intera platea che, nel frattempo, si accende coinvolgendo direttamente tutto il pubblico che sarà, cosi, spettatore partecipe di quella tragedia, vicino alla disperazione di Violetta e al dolore di chi resta, inerme e impotente di fronte alla potenza della morte. Di grande efficacia questa soluzione.

Alcune cose, però, non ci hanno convinto, anzi ci sono apparse fuori luogo o semplicistiche. Che la scena in casa di Flora debba trasformarsi in un’orgia, quasi una citazione da Eyes Wide Shut, il film di Kubrick, con gestualità esplicite che vanno oltre l’erotismo, ci sembra, onestamente, una palese indugio verso pesanti allusioni che il libretto di Piave aveva escluso. Violetta, come la dama di Dumas è una mantenuta, non una prostituta da casa chiusa. E poi, perché gran parte dei duetti si devono recitare coi cantanti seduti a terra, anche dove la scena è corredata di poltroncine, o di sofà?

Molto belli i costumi, di Giancarlo Colis, che ci portano un po’ più in là nell’ambientazione, verso un primo Novecento elegante e ugualmente esuberante, in perfetta sintonia coi pochi elementi scenografici e ricchissimi nella scena delle danze spagnole.

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