Sarabanda di Ingmar Bergman, regia di Roberto Andò

al Teatro Stabile di Catania

Con Renato Carpentieri, Alvia Reale, Elia Schilton e Caterina Tieghi. Produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale / Teatro Nazionale di Genova / Teatro Biondo Palermo, scene e costumi Gianni Carluccio, costumi Daniela Carnigliaro, musiche pasquale Scialò.

“Pensavo che tu mi stessi chiamando”

Andare a vedere Sarabanda -in scena al Teatro Stabile di Catania fino a domenica 9 marzo e poi a Palermo al Teatro Biondo- è come avvicinarsi a un rito sacro, a un’esperienza teatrale di grande impatto emotivo, a volte catartico a volte disturbante. Forse catartico proprio per la sua immensa forza disturbante.

Roberto Andò ha portato in uno spazio teatrale la sceneggiatura dell’ultimo film di Ingmar Bergman che, nel 2003 chiuse idealmente la storia familiare iniziata con Scene da un matrimonio.

Dopo tanti anni dalla loro separazione, Marianne va a trovare Johan. La sua improvvisa comparsa nella casa isolata tra i boschi dove Johan è tornato per vivere la vecchiaia in una solitudine interrotta soltanto da sporadici incontri con il figlio Henrik e la nipote Karin, entrambi violoncellisti venuti a passare un’estate di studio nel vicino cottage sul lago, costringeranno ognuno a un confronto con gli altri e con se stesso, facendo emergere le tensioni, le passioni, l’irrisolta complessità dei rapporti che legano i quattro personaggi.

Il mistero dell’amore e dell’odio, l’ineluttabile conflitto tra padri e figli, il sottinteso amore incestuoso tra Henrik e Karin, i rapporti interrotti, la presenza dell’assenza della nuora, citata da tutti ma ormai morta da due anni, la vecchiaia, la disperata fragilità umana, sono i temi di questa Sarabanda, danza lenta e severa. E’ questo che è una sarabanda, una danza lenta di carattere solenne, con un ritmo particolare che suggerisce i passi trascinati nei movimenti.

Bergman aveva pensato, in particolare, alla Suite per orchestra in Si minore n. 2 di Johan Sebastian Bach. Una suite per violoncello, perfetta per costruire una metafora che alluda a due dei personaggi, che sono, appunto, violoncellisti e al ritmo lento di rapporti che si consumano e che logorano, lentamente anime e corpi. Ci sono i riferimenti alla tragedia greca in un contesto di alienazione moderna cuciti intorno allo spartito della musica barocca.

Andò ha avuto l’intuizione e la maestria giusta per affrontare un materiale tanto complesso sia sui contenuti (dolorosi, estremi, cinici), sia sulla tecnica della rappresentazione. Ha scelto di applicare al teatro lo stesso linguaggio del cinema, tenendo presente il film ma andando oltre, firmando la sua personale lettura con rigore e personalità.

I dieci quadri del film sono qui altrettante scene fisse dove I personaggi si incontrano e dialogano muovendosi come dentro una pellicola. Esattamente pellicola, quel nastro scuro di celluloide dove si incidevano i film  prima del digitale; i  negativi da sviluppare che separano con precisione geometrica i fotogrammi. Questa è la costruzione scenica anche Andò ha realizzato per la sua Sarabanda che porta in teatro le forme del cinema insieme a quelle dell’arte- ogni singolo fotogramma è una riproduzione di quadri di Edward Hopper, il pittore che ha fermato nelle figure fisiche l’inquietudine e la solitudine umana- enfatizzate dal sottofondo musicale che usa il tema centrale della suite di Bach.

Il suono costante del violoncello, che sottolinea alcune scene e accompagna gli stacchi tecnici dei cambi di scena, diventa come un tarlo che sibilando entra nella mente e nell’anima dello spettatore accrescendo l’atmosfera fobica di tutta la pièce.  La luce sulla scena è talmente tenue da scomparire quasi del tutto, lasciando le azioni nell’oscurità totale e centrando sui personaggi che parlano un esile raggio  bianco che li isola dal resto dello spazio. Il tempo che passa è scandito da un ritmo lento (al primo quadro Marianne dice: ”se ne prende di tempo questo minuto…”).

Il rigore della regia è consentito, anche, dai quattro attori in scena, tutti più che bravi a cimentarsi con un testo incisivo e psicologico. Il protagonista, Renato Carpentieri, nei panni di Johan, è rigido nelle sue posizioni e nella cadenza vocale, austero e scontroso, segue in un climax ascendente un’indagine su di sé , sul suo passato, per poi scoprirsi sconfitto, solo e nudo. Il suo urlo sorprende, disorienta ma è liberatorio per lui e per Marianne che lo accoglierà in tutta la sua debolezza. Marianne, interpretata da Alvia Reale che dà l’immagine di una donna apparentemente più sicura, in cerca di un sentimento antico e pronta ad accudire; anche lei si troverà nuda davanti a Johan che le chiederà di spogliarsi, per essere uguale a lui.

Nella nudità totale si troveranno tutti e quattro i personaggi, Caterina Tieghi, nei panni della giovane figlia e Elia Schilton, padre della ragazza, ormai spogliati dalle ipocrisie e dai ruoli che li ha visti contrapposti in tutta la vita, e senza schermi, senza corazze, senza nemmeno gli abiti. Si presentano, nell’ultimo rettangolo di  fotogramma, davanti al pubblico, schierati in fila e nudi. Così come tutto lo spettacolo è assolutamente spoglio da ogni retorica.

In un finale disarmante lo spettatore arriva a portare fino in fondo la condivisione totale che ha avuto con l’azione scenica, con la musica barocca inquietante, con la liberazione dalle sovrastrutture della ragione e della follia. Gli applausi lunghi e sinceri dimostrano il riconoscimento verso bravissimi attori e verso un’operazione culturale catartica, quanto Bergaman e più di Bergaman.

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