SDILLIRI (di una Catanese doc)

 

Al Teatro del Canovaccio di e con Roberta Amato, alla chitarra, il maestro Roberto Stimoli  organizzazione  a cura di Mezzaria Teatro e di Filippo Trepepi.

U sdilliriu. Cos’è u sdilliriu? È quello sfogo, quell’esternazione emotiva, quella rabbia che tiriamo fuori quando ci sfoghiamo, quando parliamo da soli, quando vogliamo giustizia, quando non ne possiamo più e la ragione ci abbandona e allora in Sicilia, a Catania, si sdilliria. E’ un delirio del cuore e della pelle di chi vuole esternare e lamintarisi, quando la vita “non ti è venuta come la volevi

Roberta Amato ha scritto e ci ha regalato i suoi Sdilliri, come in un lungo, ininterrotto flusso di coscienza, una stand up comedy in cui si racconta: lei una donna di  più di trent’anni, piena di situazioni non risolte, decisamente delusa dalle tante aspettative che ha alimentato nella vita e desiderosa di aprirsi, in prima persona, senza falsi pudori, senza ipocrisie, ma con la schiettezza e la lucidità dell’intelligenza.

Al Teatro del Canovaccio, per la produzione di Mezzaria Teatro, con una sala piena- Roberta Amato si è esibita con il suo testo Sdilliri, con l’accompagnamento musicale di Roberto Stimoli alla chitarra e ci ha raccontato della sua nascita, della sua infanzia, del suo sogno grande di recitare, dei suoi amori, mancati, del suo rapporto con un fisico prorompente e sensuale ma vissuto male, della ricerca di spiritualità, di un amore mancato, della sua mamma, fonte di ispirazione e di grandissima tenerezza e protezione.

Ma Roberta è una catanese doc, una catanese nata nel cuore della città storica che le abita dentro come una malattia. Così Catania è la coprotagonista di questo recital sofferto e sudato (letteralmente, in una serata torrida di ottobre) che vive nel racconto della donna che la conosce come pochi. E’una Catania non “raggiante” ma “arraggiata”, colorata e  nera, profumata dai mille cibi della gastronomia e puzzolente “da munnizza” ormai eterna, come la lava. Il racconto di Roberta è popolato di personaggi che sarebbero folkloristici se non fossero veri, da quelli noti a quelli conosciuti solo da chi la frequenta, da chi cammina a piedi, nelle piazze, alla fiera, in pescheria, nei negozi dei cinesi e dal paninaro. Da Pippo Baudo (che “non l’ha scoperta”) a Carmen Consoli -della quale l’attrice canta alcuni pezzi con una vocalità insospettata, profonda e negra- a Gerardina Trovato -citata di striscio- ai venditori ambulanti con le loro cantilene sempre uguali: “Hai sete, vuoi bere?”

Viene fuori il ritratto di una città volgare, oscena,  violenta, devota, opulenta e povera dalla quale lei non può andare via, nemmeno se tutti le ripetono sempre, come un mantra: “Te ne devi andare da qua, te ne devi andare”.

Sdillirio ergo sum.

Così, in una raffica di citazioni e immagini che corrono su una linea del tempo a doppia velocità, interpretando le situazioni e imitando i personaggi, con un linguaggio che si nutre di dialetto stretto e di mimica, come una Petrolini al femminile, la Amato regala al suo pubblico un treno di ricordi di infanzia (anni Ottanta), un esilarante -fino allo spasimo- confessione di se stessa nella quale ci si ritrova un po’ tutti, ognuno con i propri sdilliri, con i propri sogni soffocati, col proprio rapporto di amore-odio per questa città.

Sul finale, come è nelle corde di un’autrice che abbiamo conosciuto per la capacità empatica di entrare nell’animo umano, ci porta alla commozione.

Con una ninna nanna, struggente, dedicata alla mamma, una ninna nanna delle Marabecche con la quale evoca il rapporto di guida e protezione che la madre rappresenta per lei, ogni volta che le dice “non ti fare dire mai di unni cala”, ogni volta che le dà coraggio, ogni volta che la fa sentire unica e forte. Il catanese di questa ninna nanna si fa poesia, si fa moto dell’anima, diventa dolce e familiare, così intenso, così intenso che Roberta ha la voce rotta, le lacrime non si fermano e con lei anche quelle del pubblico che ha raccolto i suoi sdilliri, li ha condivisi in un abbraccio fra “catanisi”.

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