Un pianoforte sull’Oceano: “Novecento” di Baricco alla Sala Futura di Catania
Sempre in viaggio sul mare
tra l’America e l’Europa
Novecento che passa
e una musica sempre nuova
e il più saggio di tutti i marinai
che suonava…
Edoardo Bennato
Che tipo scontroso, giocoso, scherzoso
Che tipo che coso è l′oceano oilalà
La la la la
Il tifone è allegro
Il baleno è un buffone
Quando sbatte orgoglioso il codone
La nuvola scappa
La schiuma si leva
Quando soffia l’arcoBalena
La la lala
Vinicio Capossela
Ricconi, gente comune, emigranti. Prima, seconda, terza classe. Bava d’oceano e vapore di sala macchine. Ma tutti sulla stesso piroscafo: il Virginian. Tutti pronti al sogno. Pronti per l’America. E chissà quante americhe aveva visto Danny Boodman T.D. Lemon Novecento, lo straordinario protagonista dell’omonimo monologo di Alessandro Baricco (esordio felice nel lontano ‘94 al Festival di Asti) che il Centro Teatro Studi di Ragusa, con la regia di Franco Giorgi, ha proposto all’interno del cartellone dello Stabile di Catania sul palcoscenico della Sala Futura. Al centro dello spazio la voce narrante e rammemorante: quella di Tim Tooney trombettista sul Virginian, destinato a diventare amico fraterno proprio del protagonista “Novecento” insieme alle piacevoli ombre sonore ora del ragtime – “la musica che Dio balla quando nessuno lo vede” – ora del jazz; note su note che l’Atlantic Jazz Band sparpaglia durante le lunghe traversate oceaniche. Prima che a salire in cattedra sia appunto Novecento, il pianista che vive da sempre sulla nave, raccolto neonato e subito adottato dall’equipaggio che è una miscellanea di tipi formidabili – dopo essere stato abbandonato in prima classe dentro una cassa di limoni – e sinteticamente battezzato “Novecento” in omaggio al primo anno del nuovo “fottutissimo secolo”. Novecento è un bambino prodigio: a otto anni (anche se ufficialmente non era mai nato) seduto sul seggiolino del pianoforte, “con le gambe che penzolavano giù e non toccavano nemmeno per terra”, incanta tutti con una musica che “non c’era da nessuna parte”. Almeno prima che la suonasse lui. Un essere quasi mitologico – forse la quintessenza del viaggio e della musica – che un’aura di simpatica e disincantata umanità accompagna in ogni suo gesto, in ogni sua parola. Perché Novecento non suona semplicemente note con i suoi inseparabili ottantotto tasti: suona attimi, luoghi, immagini, persone e paesaggi, sentimenti e caratteri, capace di leggere com’è, le storie che ognuno di quei viaggiatori si porta dentro: negli occhi di tutti quelli che erano saliti al bordo del Virginian: Novecento “aveva spiato il mondo e gli aveva rubato l’anima”. Luoghi, odori, rumori erano diventati una mappa – e Novecento con loro – del mondo e delle sue contraddizioni, l’icona di tutte le nostalgie e di tutti gli amori, di tutti i desideri e di tutti i sogni, un affascinante supereroe discreto che sa coniugare le battute più salaci, la saggezza più sublime agli atteggiamenti più sorprendenti ed impensabili. Imprendibile, perennemente trasversale. Sorta di improbabile biopic teatrale per voce sola, “Novecento” si incentra nella voce e nel corpo di un interprete davvero eccezionale. E’ Giuseppe Ferlito, nel corso di una vertiginosa performance attoriale (che la regia di Giorgi accende di semplici ma geniali dettagli) ad immedesimarsi in tutti personaggi della storia, a scendere nelle loro vite, ad indossare i loro panni, a declinarne voce e accenti, a variare il ritmo del corpo e dei pensieri, dei caratteri e delle idiosincrasie. Un’ora e mezza di spettacolo che è scivolato, come il Virginian sull’Oceano, su una platea rapita e attenta. Uno spettacolo sostenuto anche da quelle piccole incantevoli magie registiche di cui avevamo scritto: il volteggio di un minuscolo pianoforte su un’aria di valzer, per esempio e da una felice e accattivante scelta delle musiche: da Yann Tiersen a Scott Joplin fino a Randy Newman che ne sottolineano spessore e densità. La nave diventa insomma Novecento e Novecento è la nave, forse l’universo stesso che è celato in ogni essere, e le sue radici non sono estirpabili: per questo Novecento non scenderà mai dal Virginian, nemmeno quando, dopo la guerra, il piroscafo sarà destinato ad una ingloriosa distruzione. Sceglierà di rimanervi, capitano di sè stesso per l’eternità: sarà solo una voce che si spegne, per appagare la ricerca e il gusto di una personale, umanissima, finitezza. Al massimo potrà scendere dalla sua vita: “In fin dei conti – confessa Novecento – io non esisto nemmeno.” Spettacolo a cinque stelle.