Una Macondo sull’Aspromonte. “La fortuna del Greco” di Vincenzo Reale

Una Macondo sull’Aspromonte. La fortuna del Greco di Vincenzo Reale

Il termine “fortuna” deriva dal latino “fors” ed ha la stessa radice di “ferre” che significa “portare”, di conseguenza, stando all’etimologia della parola, “fortuna” vuol dire semplicemente “ciò che porta la sorte”. E La fortuna del Greco – notevole romanzo d’esordio edito da Rubbettino del trentenne Vincenzo Reale, insegnante di lingua italiana per stranieri e autore di racconti e libretti d’opera – probabilmente è solo quella di essere riuscito a sopravvivere alle avversità del Fato, uscendo incolume dai disagi della povertà e dell’emigrazione, dal bombardamento di Napoli del 3 settembre 1943, dallo scontro a fuoco tra una truppa Alleata e un gruppo di soldati tedeschi durante la Seconda Guerra Mondiale, da una potenzialmente rovinosa caduta in montagna, da una cruenta e devastante faida paesana e dalle follie del Tòzzolo, suo cugino. Antonio il Greco è dunque un sopravvissuto, impastato di tenacia, fatalismo e dignità. Deve il suo soprannome alla somiglianza con uno dei due Bronzi di Riace. La sua parabola esistenziale, che attraversa quasi un secolo di Storia, nazionale e locale, lo rende un testimone dei grandi e piccoli eventi del Novecento italiano, e tuttavia la sua vicenda pare essere calata in un tempo mitico e astorico, si potrebbe dire ancestrale. «Il mondo era così recente che molte cose erano senza nome, e per menzionarle bisognava indicarle col dito»: non è un caso che tornino alla memoria del lettore queste parole dell’incipit di Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcia Marquez, perché anche nel romanzo di Vincenzo Reale il mondo di Carafa Nuova, immaginario paese incastonato nel cuore dell’Aspromonte, sembra avvolto da un’aura primordiale, e, proprio come la Macondo di Garcia Marquez, è un microcosmo arcano e isolato nel quale la linea di demarcazione tra i vivi e i morti è tutt’altro che netta, così ai viventi è concesso il dono della chiaroveggenza e alla religione ufficiale si mescolano credenze e superstizioni popolari, la magia, il malocchio, le presenze ultraterrene. Custodi e medium di questo mondo liminare, e dunque figure liminari esse stesse, sono le donne: Coletta, la madre del Greco, che aveva con santa Brigida la stessa dimestichezza che si potrebbe avere con una vecchia amica e parlava col marito morto, sua cognata Teresa, detta la Sanpaulara «perché era nata la notte dei santi Pietro e Paolo» e «aveva la capacità innata di domare i serpenti», tanto da averne addomesticato uno, una piccola serpe rossa che custodiva tra i seni, e sua figlia Marina che sapeva togliere il malocchio. Se alle donne spetta questo ruolo di connessione con lo spirito, la magia e il soprannaturale, gli uomini sono invece figure pragmatiche, materiche, a volte violente fino a divenire brutali e spietate: sono loro che fanno la guerra, che si uccidono a vicenda nelle faide, che si fanno giustizia da soli, in un mondo in cui «la violenza e la beffa coesistevano, così come il senso dell’onore e la lascivia. Era possibile credere in tutto, anche nella congruenza dei contrari. Ciò che contava davvero era sopravvivere, e ognuno doveva sopravvivere a modo suo». La fortuna del Greco, pur essendo incentrato sul personaggio eponimo, è in realtà un romanzo corale e lo stesso protagonista non può prescindere dal proprio alter ego, Antonio il Tòzzolo, suo cugino e compagno di mille rocambolesche avventure. Il Tòzzolo è una sorta di doppio complementare a cui il Greco guarda con divertimento e ammirazione in quanto capace di fare quello che lui, per il suo carattere sempre controllato e responsabile, non riuscirebbe neppure a concepire. È proprio il Tòzzolo a conferire al romanzo quella sfumatura picaresca che ne alleggerisce il tono epico e tragico: Antonio il Greco e Antonio il Tòzzolo attraversano gli eventi, spesso drammatici, della loro esistenza con spavalderia e noncuranza, convinti di formare insieme un connubio invincibile. La caratteristica che più colpisce del Tòzzolo è la disinvoltura con la quale si relaziona al denaro e a qualsiasi altro bene materiale cui entra in possesso in maniera non del tutto lecita: sembrerebbe dedito a scialacquare ogni sia pur piccola fortuna che gli capiti fra le mani, tuttavia la sua è una leggerezza che ha tutto il sapore della spensieratezza e della gioia di vivere proprie della gioventù. Non è un caso che a fare da spartiacque nella storia del Greco sia proprio la separazione dal Tòzzolo, che decreta la fine della fase più scanzonata e lieta della sua vita. Pur nella sua specificità tematica e stilistica La fortuna del Greco ricorda la narrativa di Domenico Dara, non solo per quel realismo magico di matrice ispano-americana che sposa felicemente l’antichissima tradizione del racconto orale tipica del nostro Meridione, ma anche per la capacità, che sia Dara che Reale hanno, di creare personaggi in grado di imprimersi indelebilmente nella memoria del lettore. Il romanzo di Vincenzo Reale è un affresco antropologico, sociologico e storico di una Calabria in bilico tra un passato preistorico, magico, violento ma anche puro e incontaminato e un futuro incerto, una Calabria nella quale distruzione e ricostruzione sono i due poli opposti entro cui la gente è abituata a muoversi e a vivere, ricominciando ogni volta daccapo, in un moto perpetuo che fa di questa terra il luogo per antonomasia del non-finito. Quel non-finito che si palesa negli scheletri di case con i tetti piani, i mattoni a vista, i pilastri sporgenti, senza intonaco e senza finestre: «schizzi di cemento disarmonici» li ha definiti Gioacchino Criaco nel libro La Maligredi. Un aspetto paesaggistico e sociale divenuto ormai identitario della nostra regione. L’incompiuto, come stile architettonico ma anche come categoria dello spirito. Pure il Greco non finirà la sua casa, lui, esperto muratore che l’ha tirata su con le proprie mani, mattone dopo mattone, deciderà di non finirla. Non perché non può, ma perché non vuole. E sui diversi possibili motivi di questa scelta, come sulle differenti interpretazioni di quella che può essere stata (o non stata) la fortuna del Greco, il romanzo si chiude, in un finale che lascia al lettore la libertà e lo spazio di trarre le proprie conclusioni. Il romanzo di Vincenzo Reale pur attingendo a una storia familiare – è il nonno dell’autore ad aver ispirato la figura del Greco – affronta tematiche in cui tutti possono riconoscersi, come sempre accade con la vera letteratura che sa partire dal particolare per assurgere all’universale. La narrazione, potenziata dalla forza immaginifica della parola, si snoda attraverso piani temporali diversi, non seguendo un ordine cronologico lineare ma procedendo per salti, perché è così che «si racconta la vita, saltando di qua e di là nella memoria, ricordando un po’ i buoni un po’i cattivi tempi intrecciati e indistricabili, in una concatenazione di persone e parole».

Vincenzo Reale, La fortuna del Greco, Rubbettino 2023, pp. 171, euro 16,00

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