AMLETO
di William Shakespeare, al Teatro Coppola di Catania ( dal 18 al 20 novembre) con Gian Marco Arcadipane, Lucia Portale, Roberta Amato, Alice Sgroi, Carmela Silvia Sanfilippo, Amedeo Amoroso, Luigi Nicotra, Alberto Abbadessa, Francesco Bernava
assistente alla regia Gabriella Caltabiano
sartoria Grazia Cassetti
regia Nicola Alberto Orofino
Intervistando un attore giovane ma già affermato e noto, poco tempo fa, alla domanda quale personaggio avrebbe voluto ancora interpretare e quale non avrebbe mai voluto, mi è stato risposto ”in entrambi i casi Amleto”. Amleto è il traguardo e il sogno, ma anche la bestia nera di un attore e di un regista. Amleto è l’opera più enigmatica di Shakespeare, quella che ha dato lo spunto alle interpretazioni più svariate e contrastanti. Leggere Amleto, entrare in sintonia con un testo scritto intorno ai primissimi anni del 1600, comprenderne il messaggio e consegnarlo oggi a un pubblico apparentemente lontano dalle dinamiche che muovono la vicenda del principe di Danimarca, è stata l’ultima sfida che si si è posto il regista catanese più d’avanguardia, più innovativo, più incline alla sperimentazione dei nostri giorni: Nicola Alberto Orofino. Per inaugurare e festeggiare la riapertura del Teatro Coppola, a Catania, il teatro dei cittadini, che è stato chiuso negli ultimi anni, causa covid, e regalare ai catanesi un gioiello di messa in scena e interpretazione, Orofino ha scelto Amleto. Dalle sue stesse parole apprendiamo che per un artista di teatro arriva il momento di imbattersi in Amleto, inesorabilmente, e questo momento per lui è arrivato con questa occasione. Così ha chiamato a raccolta gli attori coi quali lavora da più di dieci anni, in un sodalizio fruttuoso e sempre sorprendente, e ha realizzato una regia essenziale, che ha sfrondato il testo facendo un attento lavoro di sottrazione e rendendo, così, ogni gesto, ogni movimento, estremamente simbolico e denso di significato. Il clima notturno e tenebroso con cui si apre il dramma è reso dall’ambiente del teatro Coppola, scarno, quasi vuoto, nella penombra, dove appare lo spettro motore della vicenda del padre di Amleto, a gettare l’inquietudine che diventerà disagio, dubbio, disgusto e tragedia; il “marcio” della Danimarca viene reso con un’atmosfera di putrefazione che quasi si percepisce all’olfatto. La totale rinuncia all’enfasi tragica, il lirismo sottratto, la recitazione diretta e lievemente ritmata di tutti gli attori, un gioco semplice ma raffinato di luci, i pochi elementi scenici presenti (a cura di Vincenzo La Mendola), i costumi moderni ma, in fondo, senza tempo, hanno consegnato al pubblico un messaggio attuale e vicinissimo ai nostri tempi. La perdita dei valori, il clima di corruzione e l’ambizione smodata del re Claudio (usurpatore del trono e del talamo), il disgusto che ne prova Amleto e il suo dubbio, l’angoscia del dover vivere, sono i nostri temi. Il grande regista inglese Peter Hall sostenne che “non vi è mai stato un modo ideale per rappresentare Amleto”; la chiave di lettura che ha scelto Orofino è quella di dimostrare che, in fondo, Amleto è una tragedia “sbagliata”. Una tragedia che non porta a termine la vendetta prefigurata e necessaria ma diventa un dramma di inchiesta, una perenne ricerca di senso, un testo esistenziale (sappiamo, del resto, che negli anni Cinquanta prima, col Teatro dell’Assurdo, e Sessanta poi, il dramma è stato analizzato in chiave esistenzialista). Così Orofino ha dato voce a un “protagonista sbagliato” nel quale ognuno di noi, lui per primo, si può rispecchiare. In questo ragazzo smarrito, angosciato che si domanda il senso dell’esistere e del morire, del dormire e del sognare ci ritroviamo tutti noi, oggi, coi nostri profondi smarrimenti in un momento storico così difficile come quello che stiamo vivendo. L’operazione è straordinariamente ben riuscita anche grazie agli interpreti che il regista ha scelto. La sintonia perfetta fra gli attori permette alla pièce di concentrarsi sul racconto, il plot, ridotto all’essenziale, offre ad ognuno di loro l’occasione di creare un personaggio unico, anche perché uniche ed originali sono alcune scelte precise, come quella di rendere femminili i ruoli di Polonio e Orazio.
Così, davvero unico è l’Amleto di Giam Marco Arcadipane, giovane uomo inquieto destinato a crescere in fretta perché posto di fronte a verità orrende e alla necessità di svelare menzogne e delitti, cardine intorno a cui deve reggersi la vendetta richiesta dal padre. L’attore è tragico nella sua debolezza, in una fragilità che emerge da ogni timbro vocale e da ogni gesto, misurato, naturale. Nel monologo, celeberrimo, Arcadipane è diretto, non guarda verso il vuoto, non tiene in mano il teschio ma guarda negli occhi gli spettatori seduti in circolo, le domande le pone a se stesso chiedendo aiuto, disperato, ad ogni altro suo simile venuto ad assistere alla tragedia. Riesce a commuovere, fino al finale, per la sua asciutta vera umanità. La regina Gertrude e lo zio Claudio, Lucia Portale e Francesco Bernava, si muovono sempre in coppia, ma lui conduce lei, la manovra, la prende per mano, e le si lascia guidare e, soggiogata, sembra quasi dimenticare il suo compito di madre. Bernava trasforma piano piano il suo Claudio che arriva in scena con movenze da viveur soddisfatto della sua conquista, edonista e superficiale, ormai solido nella sua posizione di potere e poi, piano piano, sarà turbato dallo svelamento del suo delitto, dovrà allontanare Amleto e preparare la vendetta finale. Polonio, che diventa una madre poco amorevole ma più opportunista, interpretata da una frizzante e quasi grottesca Carmela Silvia Sanfilippo; nei panni di Orazio Alice Sgroi, che abbiamo apprezzato in ruoli diversissimi da questo, e qui la troviamo austera e severa, amica compassionevole del protagonista, quasi androgina, così determinante che a lei viene affidato il messaggio finale davanti alla disfatta di tutti i personaggi. Altrettanto brava nella trasmutazione del suo personaggio Roberta Amato nel ruolo di Ofelia. La figura femminile, che nella tragedia è vittima innocente del disgusto di Amleto per l’amore e le donne, strumentalizzata per il gioco di potere del re, passa dall’ingenuità affascinante e ammaliante per il principe che, dopo averla illusa, la rifiuta e la caccia via dalla sua vita, alla disperazione. La giovane attrice, nella scena della pazzia, ha dato prova di aver lavorato sul personaggio: senza nessuna isteria, la fanciulla alterna frasi scomposte a canti sussurrati mentre si strugge nell’amarezza e nella malinconia che la porterà al gesto estremo.
Nella tragedia i morti si aggiungono ai morti, alla fine anche Laerte, desideroso di vendicare la morte del padre (qui madre) e della sorella, cadrà; qui il regista segna il trapasso con il gesto di porre la maschera bianca che dapprima ha solo lo spettro, sul volto di ognuno che è vittima di questa sorte atroce. Ricchi di verve i due personaggi di Rosencratz e Guildestern, Luigi Nicotra e Alberto Abadessa. Sul finale, un giovanissimo Amedeo Amoroso, con un sorriso bonario e giullaresco, innesca il meccanismo dello straniamento con il suo ruolo da becchino disincantato, che, davanti alla salma di Ofelia, esorcizza l’idea della morte e, soprattutto, del suicidio. Un finale epico, nella sua semplicità: come è nello stile di Orofino la musica, un pezzo metal-rap, interviene a trasformare l’azione scenica in una rappresentazione cinematografica, nella quale si arriva a un a conclusione di morte per tutti. I saluti, davanti ad un pubblico entusiasta, si muovono sulle note di De Andrè, “Una stroia sbagliata” con le quali il regista, coadiuvato da Gabriella Caltabiano, pone la sua firma a questa rilettura così penetrante.