MORTE DI UN COMMESSO VIAGGIATORE

al Piccolo Teatro della Città di Catania, dall’8 al 12 febbraio,

regia Nicola Alberto Orofino | con Miko Magistro,  Debora Bernardi,  Luca Fiorino, Giovanni Arezzo, Francesco Bernava, Santo Santonocito, Gianmarco Arcadipane,  Daniele Bruno,  Alice Sgroi, Lucia Portale| scene e costumi Vincenzo la Mendola | assistenti Gabriella Caltabiano, Carmela Silvia Sanfilippo, | traduzione Masolino D’Amico | produzione Teatro della Città.

“Per non morire da commessi viaggiatori”

 

Quando nel 1949, Artur Miller presentò per la prima volta a New York, Morte di un commesso viaggiatore, lo definì  “dramma in prosa e un requiem”.

Già nel titolo era presente l’epilogo della vicenda che aveva ben strutturato intorno ai temi fondamentali: la conflittualità tra padre e figlio, la progressiva autodistruzione del vecchio Willy, il commesso viaggiatore, sconvolto dalle ossessioni e dai rimorsi, angosciato dal suo fallimento personale, la responsabilità dei figli e delle loro azioni, il calvario della moglie, Linda che, inutilmente, si oppone alla ribellione dei figli e alla fine del marito.

A questi temi, che sono universali -presenti nella storia del teatro già dalla tragedia greca- Miller aggiunge una contestualizzazione molto precisa e, per lui, molto pregnante: il trionfo del capitalismo in America con la conseguente, drammatica, trasformazione dell’umanità e il capovolgimento dei valori. Il successo inseguito a tutti i costi, lo sprezzante cinismo verso chi resta indietro, l’inseguimento del profitto come metro di giudizio dell’essere umano, tutto ciò ha innescato meccanismi crudeli che annientano gli esseri più fragili e le relazioni umane, soprattutto dentro la famiglia.

C’è, in Miller un intento di denuncia molto forte e molto consapevole, la sua attenzione per il sociale è testimoniata da tutta l’intera produzione e dalla sua vicenda personale: fu processato negli anni del Maccartismo nel 1957 per la sua posizione anticapitalista.

Oggi, a più di settant’anni dalla prima rappresentazione, il dramma di Miller parla la nostra lingua quotidiana e parla di noi, noi, società del XXI secolo, in cui un Presidente degli USA ha rilanciato il motto “Make America great again!”, dove, però, scarseggiano le voci di denuncia così forti (forse nel cinema, forse Ken Loach), riportare in scena Morte di un commesso viaggiatore, è un atto di assoluto impegno e riflessione sociale, etica, religiosa.

Ha compiuto questa scelta, a Catania, uno dei registi più talentuosi e preparati del panorama italiano, Nicola Alberto Orofino che, dopo avere regalato al pubblico catanese una memorabile edizione di Amleto, adesso ci ha consegnato una vera lezione di teatro.

Ha scelto di lavorare con le colonne del teatro catanese (anche se è riduttivo relegarli a un territorio ristretto): Miko Magistro e Debora Bernardi, nel ruolo di Willy e di Linda, la docile moglie e madre. Attorno a loro una compagnia affiatata da sempre, costituita da attori che stanno facendo tornare grande il teatro in Sicilia.

Una gara di bravura dove è davvero difficile attribuire una medaglia.

Ci ha toccato il cuore Luca Fiorino nei panni di Biff: un figlio fallito che si dilania tra l’odio e l’amore per il padre, intenso e vibrante nella voce e negli sguardi, in un crescendo che strazia nella scena finale. Accanto a lui Giovanni Arezzo, personaggio dinamico e superficiale, il fratello che ha un impiego sicuro ma se la spassa con le ragazze e non vuole pensieri. Gianmarco Arcadipane, il cugino Bernard che fa da contraltare ai figli di Willy, lui rampante avvocato di successo con un passato da secchione che adesso “ce l’ha fatta” ha conquistato il suo posto nel mondo, ha vinto. La donna, l’amante di Willy, la responsabile dello scontro tra padre e figlio, una Alice Sgroi in splendida forma, seducente e maliziosa, vittima anche lei di un mondo che lascia tutti in solitudine e amarezza. La Signorina Forsythe,  donna facile, testimone involontaria di uno dei momenti più tristi della vicenda, Lucia Portale, sarcastica, avvenente “signorina”,  desiderosa solo di un guadagno facile e un po’ di divertimento.

Personaggi denotatori del disagio e del travaglio di Willy, Charley, Francesco Bernava, e Zio Ben, Santo Santonocito, che appare da fantasma dei ricordi ad accrescere l’inqiuetudine del commesso viaggiatore. Poi, Daniele Bruno, nella duplice parte di Howard Wagner, il perfido, cinico, ingrato datore di lavoro di Willy, e Stanley, un bravo attore che sta dimostrando di saper cogliere quel testimone che i due grandi sembrano consegnare ai “giovani” in questa rappresentazione.

Il meccanismo perfetto in scena in questi giorni al Piccolo, ruota attorno a due assi portanti, i due istrioni Miko Magistro e Debora Bernardi, la cui bravura è  scolpita  nella storia della cultura  catanese, che ammaliano,  scuotono gli spettatori così vicini a loro (per le dimensioni della sala), fino all’emozione più sincera, ormai così rara nelle sale italiane, Lui, “un vero leone” -come Biff definisce suo padre davanti a chi vuole attaccarlo-  lei un’eroina tragica, composta, unica donna in un mondo maschile a maschilista, gioca con la sua bellezza esaltandola e facendola sparire, così come la gioia di vivere. Conserva solo l’amore per il suo uomo, anche quando si è infranto il  sogno americano di avere la casa, la macchina, il frigorifero…

Scenicamente, Miller scrisse questo lavoro giocando sulle dissolvenze temporali tra passato e presente, proiettate dalla  mente del protagonista come fotogrammi che si sovrappongono dove la nostalgia rievoca momenti di serenità e speranza e il presente riconduce tutto alla percezione del fallimento e del dolore.

Un dramma senza speranza, persino la morte (cercata alla fine da Willy come unica soluzione) viene capitalizzata con il riscatto dell’assicurazione sulla vita. Il pianto finale sarà solo quello della povera Linda rimasta sola.

A dirigere l’ingranaggio (già pensato, già scritto, in equilibrio perfetto) il regista Orofino che, ancora una volta, ci ha sorpreso. Stavolta la sua originalità sta nel fare un passo indietro, nell’assimilare l’intento di denuncia -con pochi simboli scenografici (a cura di Vincenzo La Mendola) come la bandiera a stelle e strisce- dell’autore e dare la corda ai magnifici interpreti. L’aspetto umano è sottolineato dalle scelte musicali, sua cifra specifica, che qui toccano l’animo del pubblico con le note  di John  Williams conosciute per essere state la colonna sonora (premio Oscar nel 1994) del capolavoro di Spielberg Schindler’s List  (una melodia, a dire il vero fortemente connotata nel senso della tristezza)  e dell’inno americano ( In God is our trust).

L’emozione così forte è lo strumento che deve scuotere le nostre coscienze, per “non morire (noi) da commessi viaggiatori.

 

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