RIGOLETTO SECONDO RIGOLETTO
Al penultimo spettacolo della stagione lirica 23/24, il Teatro Massimo Bellini di Catania, nel mese di ottobre, ha continuato a mantenere la promessa di portare in scena e regalare al pubblico catanese -ma anche ai numerosi turisti che visitano a ammirano il gioiello dell’architetto Sada- un’edizione di grande bellezza e potenza nella sua classicità con il Rigoletto di Giuseppe Verdi.
Opera fra le più conosciute ed amate del musicista di Busseto, rappresentata per la prima volta nel 1851, la tragedia in musica, su libretto di Francesco Maria Piave da un dramma di Victor Hugo, è stata proposta in una versione che ha entusiasmato il pubblico della prima (nella sera del 29 ottobre) per la sua classica linearità e totale rispetto del libretto e delle intenzioni dell’autore.
Con la regia di Leo Nucci, in scena un cast internazionale: il baritono George Gagnidze (Rigoletto), il soprano Enkeleda Kamani (Gilda) e il tenore Ivan Magrì (il Duca di Mantova), il basso Ramaz Chikviladze (Sparafucile), il contralto Elena Belfiore (Maddalena), il basso Luca dall’Amico (Monterone) il baritono Fabrizio Brancaccio (Marullo), il tenore Riccardo Palazzo (Borsa). Direzione d’orchestra di Jordi Bernàcer; Orchestra del Teatro Massimo e Coro sotto la guida del Maestro Luigi Petrozziello. Coreografia di Giuseppe Bonanno. Aiuto regia Alessandro Idonea.
Scene di Carlo Centolavigna e costumi di Artemio Cabassi, produzione del Teatro Massimo Bellini.
Classica bellezza si diceva. Del resto il regista Leo Nucci, nei panni del buffone di corte, nel panorama della lirica italiana e non, è stato negli ultimi decenni il più grande Rigoletto, il Rigoletto per antonomasia, avendo superato le 500 repliche da baritono, sin dalla sua prima volta nel 1973, e, ultimamente, anche da regista.
Nell’estate del 2021 Nucci aveva curato la regia di un imponente allestimento al Teatro Antico di Taormina, e ne era stato anche interprete con la direzione d’orchestra di Placido Domingo, riportando un grande successo nel pubblico che rimase entusiasta e richiese perfino il bis della cavatina “ Sì Vendetta tremenda vendetta”.
In questa versione, con una scenografia per forza di cose ridotta, ma con la stessa impostazione che sottolinea la tragicità di una vicenda dove lo scontro tra pubblico e privato, l’arroganza e la sincerità dei sentimenti, l’angoscia di un padre e la tenerezza di una ragazza innamorata fino all’estremo sacrificio, vengono esaltati dal rispetto per il contesto storico e gli ambienti del XVI secolo a Mantova. E’ molto importante che la regia esprima questo rispetto che nasca da una competenza sul testo e sulla musica, senza forzature, senza eccessi, senza scandali e volgarità che spesso ci è toccato vedere. Perché l’opera lirica è inviolabile con la sua specifica specularità tra testo e melodia, canto e recitativo e riferimenti storici. Ciò non toglie che il regista possa avere idee originali e trovate simboliche, per esempio, che suggellino il proprio punto di vista. Lo ha fatto Leo Nucci in questa sua versione così filologicamente attenta ai particolari suggestivi.
A partire dalla figura del buffone, impersonato da George Gagnidze, voce profonda e in linea con una partitura non lirica ma fatta di esplosioni di declamato e sempre ritmata, che non si presenta in scena con una gobba evidente ma semplicemente zoppicando e chinando il busto in avanti. Non ha voluto caricare in senso ridicolo il disperato padre ma ne ha accentuato la condizione dolorosa della solitudine e della responsabilità. Così è emerso un Rigoletto fragile, che all’inizio della vicenda incoraggia un governante dissoluto e privo di scrupoli e si diverte a schernire le sorti altrui, ma poi rivela tutto il suo infinito amore per Gilda, la giovane figlia ignara della vita e del male che la circonda. Nucci ha dichiarato di aver voluto sottolineare che Verdi rende moderno Rigoletto padre liberandolo dalla responsabilità che, invece, gli aveva attribuito Victor Hugo. Il finale di Verdi chiude l’opera con la rabbia di Rigoletto che attribuisce tutta la colpa alla maledizione di Monterone sottolineata in tutta l’opera, sin dal preludio, dal ripetersi costante del tema, tramite la ripetizione della nota do in ritmo doppio puntato.
Della fanciulla innocente Nucci ne ha fatto una ragazza che nell’amore e nell’intento di salvare il Duca dalla vendetta del padre esprime la sua ribellione (piccoli gesti nella scena del giardino la fanno apparire insofferente ai dettami del padre) per poi scioglersi in una disperata richiesta di perdono nel duetto finale, nell’agonia della morte. Delicata e modulata la voce del soprano Enkeleda Kamani a suo agio nelle arie liriche e lievemente (Verdi non amava le lunghe tirate dei soprano) virtuosistiche e ben timbrata nei passi dove la musica di fa frammentata, singhiozzata (come nel quartetto o nel terzetto della tempesta del terzo atto). Il tenore catanese Ivan Magrì ha interpretato il Duca di Mantova restituendoci tutta l’arroganza di un uomo potente e cinico che espone il filo melodico principale nelle arie celeberrime, “la domme è mobile”, questa o quella” raggiungendo tonalità vibranti.
Tragica la figura di Monterone che scaglia la maledizione da padre a padre, potentissima nella voce e nella gestualità di Luca dall’Amico che qui appare in scena come se fosse già uno spettro, vestito di un bianco funereo, altra oroginale interpretazione del regista.
La sua firma personalissima l’ha suggellata con la presenza in scena nella sala del palazzo ducale di una statua, una riproduzione del Ratto di Proserpina del Bernini la cui posa plastica avevano imitato nella scena del rapimento la stessa Gilda e le due guardie del Duca. Il messaggio è molto chiaro e, purtoppo, quanto mai universale: la vulnerabilità delle donne molte volte, troppe volte soggette alla prepotenza di uomini “al male più che al bene usi” (per citare Dante).
Nella scenografia ancora qualche elemento pittorico che ricorda varie raffigurazioni di celebri Ratti nella storia dell’arte. A proposito della scenografia dobbiamo riconoscere a Carlo Centolavigna il merito di aver realizzato uno scorcio di Palazzo Ducale fedele a un edificio del tempo con la sua sontuosità solenne e tutti gli elementi caratterizzanti una corte rinascimentale e, anche, l’intimità del piccolo podere sul Mincio della casa di Rigoletto e l’aspetto lugubre e inquietante della taverna di Sparafucile e Maddalena nel bosco. Altrettanto fedeli i costumi di Artemio Cabassi, sobri per il protagonista (non troppo giullare), forse dai colori troppo marcati per i cortigiani.
L’orchestra del Teatro Massimo ha, ancora una volta, regalato una magnifica prova sotto la direzione di Jordi Bernàcer che non ha enfatizzato la potenza della composizione operistica quanto, piuttosto, i passaggi lirici e i concertati. Va ricordato che il pubblico, in delirio, ha richiesto e ottenuto il bis alla la cabaletta “Sì vendetta, tremenda vendetta” per la perfetta congiuntura di voci e orchestra.
Perfettamente in linea col rigore interpretativo e l’originalità dell’impostazione anche tutte le figure minori: il basso Ramaz Chikviladze, Sparafucile il contralto Elena Belfiore nel ruolo della seducente Maddalena, il tenore Riccardo Palazzo nel ruolo di Borsa, il baritono Fabrizio Brancaccio nel ruolo di Marullo.
Alla fine il pubblico ha tributato un osanna di appalusi per tutto il cast ma, soprattutto, quando è salito in ribalta Leo Nucci, che ci ha regalato il Rigoletto più “suo” della sua carriera.