A cento anni dalla nascita di Franco Costabile: Poesia e questione meridionale. Due giorni a Cosenza

A cento anni dalla nascita di Franco Costabile: Poesia e questione meridionale. Due giorni a Cosenza

Con questo cuore troppo cantastorie

dicevi ponendo una rosa nel bicchiere

e la rosa s’è spenta poco a poco

come il tuo cuore, si è spenta per cantare

una storia tragica per sempre.

(Giuseppe Ungaretti)

Poesia e questione meridionale” è il sottotitolo scelto dai curatori delle due giornate cosentine dedicate a Franco Costabile in occasione del centenario della nascita. Organizzano “Seminaria culture” e il “Dipartimento di Studi Umanistici” dell’Università della Calabria insieme al “Comitato Celebrazioni per il Centenario” di Lamezia Terme, che intendono ricordare l’opera dell’importante poeta calabrese. Il primo incontro sarà martedì 7 maggio alle ore 16,30 all’Università della Calabria (Aula Borsellino cubo 40 c): porterà i saluti Anna Petrungaro (Seminaria), interverranno Giuseppe Lo Castro (Unical) e Pasqualino Bongiovanni (Univ.Complutense di Madrid). Il Liceo “Telesio” di Cosenza ospiterà il secondo incontro mercoledì 8 maggio alle ore 16,30 nella Biblioteca “S. Rodotà”. La sua direttrice, Antonella Giacoia, aprirà il pomeriggio per Mauro F. Minervino, Lo Castro e Bongiovanni. Reading sarà curato da Lara Chiellino. Modererà Pierluigi Pedretti.

Nella tua notte

io solo ti vedo

colma di luce.

Ai miei occhi

poveri di storia

si rammenta

il gioco a mosca cieca

delle lucciole:

tu ed io

nel sonno degli ulivi.

E la fragranza

raccolta nei capelli

alla corsa dei pini;

e lo stagno paziente

al gioco dei tuoi sassi;

e le altre cose

scomparse:

anche la primavera

stanca di rose

si è spenta.

( da “Via degli ulivi”)

 

«Il poeta nacque a Sambiase, il 27 agosto 1924. Il padre dopo il matrimonio si reca in Tunisia per dedicarsi allinsegnamento, abbandonando moglie e figlio. Nel 1933 la madre Concetta si reca col figlio in Africa per convincere il marito a riunire la famiglia, ma lo trova accasato. Questa esperienza segnerà il poeta, a cui farà riferimento nel componimento giovanile “Vana Attesa” (…) Dopo la maturità classica conseguita a Nicastro, si iscrive alla Facoltà di Lettere, prima a Messina e poi dal 1946 a Roma. In questo periodo stringe un forte rapporto con Giuseppe Ungaretti, suo professore di Letteratura Contemporanea. (…) Nel 1950 pubblica a proprie spese il suo primo libro di poesie, “Via degli ulivi”, recensita favorevolmente da Giorgio Petrocchi. Nel 1953 sposa Mariuccia Ormau, sua ex allieva. Da questo matrimonio nascono le figlie, Olivia (1955) e Giordana (1957). Sono anni duri per il poeta, che ancora nel 1961 lavora come insegnante precario nella scuola. In questo stesso anno pubblica “La Rosa nel bicchiere”, raccolta di poesie, che viene segnalata per il Premio Viareggio. Alla RAI viene fatta una lettura dei suoi versi da parte di Valeria Moriconi. La moglie, intanto si trasferisce a Milano portando con sé le due bambine: è un secondo abbandono familiare. In questo periodo si rompono definitivamente i rapporti col padre lontano, mentre nel 1964 muore la madre, affetta da un male incurabile. Nello stesso anno sono pubblicate in un volume collettaneo “Sette piaghe dItalia”, tra le poesie vi è “Il canto dei nuovi emigranti”, per la quale riceverà il Premio Letterario Frascati. Il 14 aprile del 1965, si toglie la vita.»

(da Caterina Verbaro, “Franco Costabile”, in Dizionario Biografico della Calabria Contemporanea)

Il canto dei nuovi emigranti

Ce ne andiamo.

Ce ne andiamo via.

Dal torrente Aron

Dalla pianura di Simeri.

Ce ne andiamo

con dieci centimetri

di terra secca sotto le scarpe

con mani dure con rabbia con niente.

Vigna vigna

fiumare fiumare

Doppiando capo Schiavonea.

Ce ne andiamo

dai campi derba

tra il grido

delle quaglie e i bastioni.

Dai fichi

più maledetti

a limite

con lautunno e con lItalia.

Dai paesi

più vecchi più stanchi

in cima

al levante delle disgrazie.

Cropani

Longobucco

Cerchiara Polistena

Diamante

Nao

Ionadi Cessaniti

Mammola

Filandari

Tufi.

Calcarei

immobili

massi eterni

sotto pena di scomunica.

Ce ne andiamo

rompendo Petrace

con lultima dinamite.

Senza

sentire più

il nome Calabria

il nome disperazione.

Troppo tempo

siamo stati nei monti

con un trombone fra le gambe.

Adesso

ce ne scendiamo

muti per le scorciatoie.

Dai Conflenti

dalle Pietre Nere da Ardore.

Dal sole di Cutro

pazzo sulla pianura

dalla sua notte, brace di uccelli.

Troppo tempo

a gridarci nella bettola

il sette di spade

a buttare il re e lasso.

Troppo tempo

a raccontarci storie

chiamando onore una coltellata

e disgrazia non avere padrone.

Troppo

troppo tempo

a restarcene zitti

quando bisognava parlare, basta.

Noi

vivi

e battezzati

dannati.

Noi

violenti

sanguinari

con l’accetta

conficcata

nella scorza

dei mesi degli anni.

Noi

morti

ce ne andiamo

in piedi

sulla carretta.

Avanzano le ruote

cantano i sonagli verso i confini.

Via!

Via

dai feudi

dagli stivali dai cani

dai larghi mantelli.

Ussahè…

Via

Via!

Via

dai baroni.

I Lucifero

I conti Capialbi

I Sòlima gli Spada

I Ruffo

I Gallucci.

Usciamo

dai bassi terranei

dal sudario

dei loro trappeti

dai parmenti

della vendemmia

profondi

a lume di candela

e senza respirazione.

Via

dai Pretori

dalla Polizia

dagli uomini donore.

Non chiamateci

non richiamateci.

È scritto

nei comprensori

È scritto

nei fossi nei canali

È scritto

in centomila rettangoli

alto

su due pali

Cassa del Mezzogiorno

ma io non so

che cosa

si stia costruendo

se la notte

o il giorno.

Ci sono raffiche

su vecchie facciate

che nessuno leva: locchio

del Mitra

è più preciso

del filo a piombo della Rinascita.

Addio,

terra.

Terra mia

lunga

silenziosa.

Un nome

non lo ebbe

la gioventù

non stanchiamoci adesso

che ci chiamano col proprio cognome.

Noi

Noi

ce ne siamo

già andati.

Dai Catoi

dagli sterchi orizzonti.

Da Seminara

dalle civette di Cropalati.

Dai figli

appena nati

inchiodati nella madia

calati

dalle frane

dallAspromonte

dei nostri pensieri.

Spegnete

le lampadine della piazza.

Scordiamoci

delle scappellate

dei sorrisi

dei nomi segnati

e pronunciati per trentasei ore.

Cassiani

Cassiani

Cassiani

Cassiani

Foderaro Galati

Foderaro

Antoniozzi

Antoniozzi

Cassiani

Cassiani

La croce

sulla croce,

diceva larciprete.

E una croce

sulla croce,

segnavano le donne.

andavano

e venivano.

Foderaro

Antoniozzi

Antoniozzi

È stato

sempre silenzio.

Silenzio

duro

della Sila

delle sue nevicate a lutto.

È stato

il pane a credenza

portato

sotto lo scialle

allaltezza del cuore.

Sono stati

i nostri occhi stanchi

guardando

le finestre illuminate

della prefettura.

Carabinieri,

fermatevi.

Guardate,

giratevi

non c’è nemmeno un cane.

Siamo

tutti lontani

latitanti.

Fermatevi.

Restano

gli zapponi

dietro la porta,

i cieli,

i vigneti.

La pietra

di sale sulla tavola.

I vecchi

che non si muovono

dalla sedia,

soli

con la peronospera nei polmoni.

Le capre

la voce lunga

degli ultimi maiali scannati.

Largento

a forma di cuore, nella chiesa.

Le ragnatele

dietro i vetri, le madonne.

La ragnatela del Carmine

la ragnatela di Portosalvo

la ragnatela della Quercia.

Restano le donne

consumate da nove a nove mesi

con le macchie

della denutrizione

della fame.

Le addolorate

Le pietà di tutti gli ulivi.

Lavando

rattoppando

cucinando su due mattoni

raccogliendo

spine e cicoria.

Cancellateci

dallesattoria.

Dai municipi

dai registri

dai calamai

della nascita.

Levateci

Scioglieteci

dai limoni

dai salti

del pescespada.

Allontanateci

da Palmi e da Gioia.

Noi

vivi

Noi

morti

presi e impiccati

cento volte

ce ne siamo già andati

staccandosi dai rami

dai manifesti della repubblica.

Di notte

come lupi

come contrabbandieri

come ladri.

Senza unidea dei giorni

delle ciminiere degli altiforni.

Siamo

in 700 mila

su appena due milioni.

Siamo

i marciapiedi

più affollati.

Siamo

i treni più lunghi.

Siamo

le braccia

le unghie dEuropa.

Il sudore Diesel.

Siamo

il disonore

la vergogna dei governi.

Il Tronco

di quercia bruciata

il monumento al Minatore Ignoto.

Siamo

lodore

di cipolla

che rinnova

le viscere dEuropa.

Siamo

unaltra volta

la fantasia

il 1° giorno di scuola

senza matita

senza quaderno

senza la camicia nuova.

Toglieteci

dalle galere.

Non ubriacateci.

Liberateci

dai coltelli di Gizzeria

dal sangue dei portoni.

Non chiamateci

da Scilla

con la leggenda del sole

del cielo

e del mare.

Siamo

bene legati

a una vita

a una catena di montaggio

degli dei.

Milioni di macchine

escono targate Magna Grecia.

Noi siamo

le giacche appese

nelle baracche nei pollai dEuropa.

Addio

terra.

Salutiamoci,

è ora.

( da “Sette piaghe d’Italia”)

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