di Joël Contival. Con Stefania Micale e Marcello Montalto, regia di Marco Longo, produzione Theatre Degart, elementi scenici di Arkè. In scena al Teatro del Canovaccio 10/11/12 febbraio, per la Rassegna Presenze.
In quanti modi si può raccontare il dramma di una violenza domestica in cui un marito, costantemente ubriaco, riduce la moglie a un punto tale da farle perdere la memoria? Si può puntare sull’aspetto tragico, si può enfatizzare fino al melodramma, si può scegliere una corda di narrazione cinica. Oppure si può trovare una soluzione originale, che lo stesso autore ha definito una “commedia drammatica”, con un ossimoro che sintetizza la complessa cifra narrativa che racconta la vicenda di una coppia. L’autore è Joël Contival, attore, regista e autore francese vivente, che nel 2014 pubblica il testo di La Baignoire de l’oubli , tradotto in italiano da Marco Longo e rappresentato in prima nazionale – dopo il debutto a Perpignan nel 2016, con altre repliche a Toulouse e a Parigi- al Teatro del Canovaccio di Catania, con la regia dello stesso Marco Longo.
«“A porte chiuse” in un bagno, dove un uomo ubriaco siede nell’oscurità. Si alza a fatica, accende la luce, inciampa contro una bottiglia. La afferra per bere, ma si accorge che è vuota… La nasconde con altri “cadaveri” in attesa… All’improvviso si ferma, poi gira lentamente la testa in direzione della vasca, si accorge di un piede in bella mostra… si avvicina con cautela e scopre che sul fondo c’è una bellissima sconosciuta semi nuda, ferita e affetta da amnesia».
Con questa didascalia l’autore spiega la scena. Ed è così che si presenta ad apertura di sipario l’ambiente nel quale si svilupperà un dialogo che sembra attingere al numeroso repertorio del teatro dell’Assurdo, dove la reciproca perdita di memoria consente allo spettatore di dubitare di ogni ipotesi di verità perché le due versioni, dell’uomo e della donna, sembrano non potersi incontrare in un unico punto.
Lui, Marcello, vive in un mondo allucinato, sotto effetto di psicofarmaci e alcool; sembra affascinato da una possibilità che il caso gli sta presentando facendogli trovare nella sua vasca, in quel bagno che è diventato, da tempo, la sua casa, una donna bellissima e sconosciuta. Lei, Maria, appare come una donna inconsapevole, spaventata, che presenta altri ricordi, anzi nessun ricordo come chiave di soluzione per sciogliere il rebus delle loro rispettive identità.
Il bagno dell’oblio, la monade dentro la quale si può costruire un’altra realtà, si può viaggiare verso un sogno liberatorio e salvifico, è la dimensione di due coscienze che si sono perse e che, proprio passando per la perdita della memoria, si possono sciogliere dal passato e proiettarsi in un’altra realtà.
Sembra così, fino a un certo punto.
Fino a quando Maria capovolge le sorti dei due, approfitta dell’ennesima sbornia di Marcello, lo minaccia con una pistola e gli rivela che quelle ferite sulle gambe, i lividi, le bruciature di sigarette, il taglio sulla fronte, lei, Maria, non se li è procurati chissà come, ma che è stato lui, Marcello, suo marito e carnefice.
E così,“ le atmosfere a metà tra l’onirico e la sbornia” (note di regia), lasciano il posto a un’angosciante e “drammatica sobrietà che palesa una violenza, quella domestica contro le donne, in un luogo, il bagno, metafora delle quattro mura familiari, in cui l’inferno è la coppia”
Maria ha trovato come uscire da quel suo inferno privato, come ingannare il suo carnefice e fuggire da quell’oblio fatto di violenza e sopraffazione.
Il testo è sorprendente perché lo spettatore resta ipnotizzato nella prima parte alla ricerca di una possibile chiave di lettura. Ma la verità viene svelata con un colpo di scena allorché Maria, tolto l’accappatoio e indossati i suoi abiti, fa trovare, casualmente, a Marcello una loro foto e svela la sua identità. Coraggiosa e quasi solenne lascia l’ uomo da solo, affranto, ancora una volta con una bottiglia in mano, affogato nell’oblio.
Molto convincenti nei loro ruoli Stefania Micale (che ha anche collaborato alla traduzione) e Marcello Montalto, capaci, entrambi di modulare in una sapiente interpretazione, il passaggio dal livello comico-parodico a quello cupo e epifanico del finale.
La traduzione e, di conseguenza, la regia di Marco Longo, calibrano le due misure della pièce tra scelte linguistiche moderne, passaggi comici, e soluzioni sceniche molto pertinenti (l’oggetto protagonista, la vasca che diventa sarcofago, barca, letto…)
La suggestione immediata nell’immaginario comune è quella che ci riporta a La morte di Marat, il quadro di Jacques Louis David del 1793, dipinto rivoluzionario proprio per avere messo in primo piano un luogo privato come la sala da bagno.