La dolente cantata dialettale di Nino Romeo: “Post mortem”. Alla sala “De Martino” di Catania

La riproposizione di uno spettacolo che ha debuttato poco meno di quindici anni fa sui legni dello storico Camera Teatro Studio del Gruppo Iarba (e più recentemente su quelli del Teatro del Canovaccio) potrebbe nel migliore dei casi apparire una leziosità. Invece lo accogliamo – nella Sala «Giuseppe Di Martino» di Fabbricateatro – col plauso incondizionato che si concedo ad un piccolo ma strepitoso «classico», exemplum, per di più, della filosofia drammaturgica di Nino Romeo, spesso incentrata sulle inquietudini esistenziali di individui (singoli o coppie) che sono chiamati dal destino a fare, terribilmente, i conti con se stessi. Non sfugge a questa sorte nemmeno Delfo Torrisi, protagonista monologante di «Post mortem», l’atto unico che Nino Romeo ha trasferito sul palco dalla sua omonima novella: la storia di un’agnizione, di un’ascesa che pare inarrestabile e che diventa invece una discesa definitiva agli inferi. Il protagonista, figlio di «Cirinu u munnizzaru», ormai consacrato «prufissuri», medico dagli esuberanti istinti sessuali, dotato inoltre di uno straordinario olfatto capace di schiudergli le porte di una inarrestabile carriera all’Istituto di Medicina legale, ripercorre la sua vicenda umana e professionale in una atmosfera immersa nel buio, nella quale scintillano solo i bicchieri e le bottiglie accuratamente disposte sull’altare-scena, come per un sacrificio o una cerimonia. E lungo la sinusoide farneticante del suono-lingua del dialetto catanese lo stesso Nino Romeo, nei panni del protagonista, trasfigura il suo testo in una sontuosa «cantata», in una lamentazione: grido di dolore che i fumi dell’alcol in cui Delfo affonda inesorabilmente non fanno che esasperare fino al lancinante colpo di scena finale.

La sua storia procede per opposizioni: da un lato il parossismo sessuale e olfattivo, prorompente e irrefrenabile, dall’altro l’urgenza velata (mai esplicitata e dunque più amara) di una pietas che possa redimerlo. Cantata, dicevamo; barocca aggiungiamo: i recitativi, i cori, gli stessi lancinanti inserti delle note di Luciano Berio, maestro dell’avanguardia musicale, che la caratterizzano convergono infatti in quel «mistilinguismo» polifonico (si pensi a «Storia di Frangisca») che contraddistingue il teatro di Nino Romeo, ormai naturalmente riversatosi nella parlata dialettale come in «Cronica» o in «Fatto in casa». Certo, come dichiarato ossequio alla paterna «sapienza linguistica», ma soprattutto varco meticoloso – come ha notato Fernando Gioviale nella prefazione al volumetto (Prova d’Autore, 2006) che contiene l’atto unico – attraverso cui percorrere dal «ritorno consapevole e studiato alla cultura, la salvezza della memoria della natura». Nell’arco di tre sequenze, l’ossimorico (h)umor alcolico su cui s’avvita e s’avventa la voce di Nino Romeo consente a Delfo di sciorinare una vicenda apparentemente surreale nell’unica consolazione di un tavolo affollato di bottiglie e di bicchieri mai vuoti (e nella ovvia metafora dello spazio minimo, fetale, del teatro la regia di Pippo Di Marca aveva già rivelato il suo geniale lampo), una vicenda giocata tra i poli opposti di Pirandello e di Brancati lungo un climax narrativo incalzante e convulso. Anche se struttura, contenuti e scioglimento della vicenda potrebbero benissimo evocare atmosfere boccaccesche ora le più dolenti, ora le più sensuali; nonostante «Post mortem» possa condurre sugli spinosi sentieri, che so, di una devastante decostruzione alla Celine, Nino Romeo impone alla sua messa in scena un procedimento degenerativo: non solo narrativamente, attraverso una sorta di caccia all’uomo – Delfo vilipeso, perseguitato poi retrocesso, suo malgrado, alla mansione di «spaccamotti» – ma soprattutto attraverso una dinamica drammaturgica costruita sul mutevole gioco di ruoli, grazie al quale il protagonista si racconta in prima e in terza persona, spostando ogni equilibrio raziocinante. Perciò il protagonista è una antifrastica sirena auto-seducente: offrendosi questa volta la letteratura se non come salvezza almeno come confessione e rivelazione, ricerca – post mortem appunto – di un compatire che nessuno avrebbe mai pensato di concedere e a cui anche gli stessi spettatori sono chiamati a rispondere in quella che si dipana come una vera e propria veglia funebre accanto a Delfo. Al quale, finalmente, il rasto intimissimo della sua carne accorda una redenzione tutta umana.

Fino al 12 marzo

produzione Gruppo Iarba/GRIA teatro

Sala Giuseppe Di Martino – Fabbricateatro – via Caronda 84 – Catania

feriali ore 21,00 – domenica ore 18,00

ingresso euro 5,00 – info e prenotazioni 380 2676235

 

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