La Pace, di Aristofane

Traduzione di Nicola Cadoni, regia di Daniele Salvo, scene Allessandro Chiti, istallazioni sceniche Michele Ciacciofera, costumi Daniele Gelsi, musiche originali Patrizio Maria D’Artista, coreografie Miki Matsuse, luci Giuseppe Filipponio.

Interpreti:

TRIGEO | Giuseppe Battiston
ERMES/IEROCLE | Massimo Verdastro
SERVO DI TRIGEO I | Simone Ciampi
SERVO DI TRIGEO II / ARISTOFANE | Martino Duane
FIGLIA DI TRIGEO I | Francesca Mària
FIGLIA DI TRIGEO II | Stella Pecollo
POLEMOS / MERCANTE DI ZAPPE |Patrizio Cigliano
MACELLO | Gaetano Aiello
MERCANTE DI ARMI | Giuseppe Rispoli
FABBRICANTE DI FALCI | Paolo Giangrasso
LA PACE | Jacqueline Bulnés
LA PACE (MONOLOGO FINALE) | Elena Polic Greco
OPORA (DEA DEL RACCOLTO) | Federica Clementi
THEORIA (DEA DELLA FESTA) | Gemma Lapi
CORIFEI | Gaetano Aiello, Simonetta Cartia, Simone Ciampi, Patrizio Cigliano, Enzo Curcurù, Martino Duane, Marcella Favilla, Paolo Giangrasso, Elena Polic Greco, Francesco Iaia, Giancarlo Latina, Francesca Mària, Stella Pecollo e Giuseppe Rispoli

Con la partecipazione degli allievi dell’Accademia d’Arte del Dramma Antico
CORO | Clara Borghesi, Davide Carella, Alberto Carbone, Carlotta Ceci, Federica Clementi, Alessandra Cosentino, Giovanni Costamagna, Christian D’Agostino, Carloandrea Pecori Donizetti, Ludovica Garofani, Enrica Graziano, Althea Maria Luana Iorio, Denise Kendall Jones, Domenico Lamparelli, Gemma Lapi, Zoe Laudani, Emilio Lumastro, Marco Maggio, Carlo Marrubini Bouland, Carlotta Maria Messina, Moreno Pio Mondi, Matteo Nigi, Giuseppe Oricchio, Edoardo Pipitone, Beatrice Ronga, Francesco Ruggiero, Jacopo Sarotti, Massimiliano Serino, Davide Sgamma, Francesca Sparacino, Stefano Stagno, Giovanni Taddeucci, Siria Sandre Veronese, Elisa Zucchetti.

Dopo Prometeo incatenato di Eschilo, per la regia di Leo Muscato, e Medea di Euripide per la regia di Federico Tiezzi, per la prima volta nella sua lunghissima storia, l’Istituto Nazionale del dramma antico di Siracusa, quest’anno ha portato in scena La Pace di Aristofane, con la regia di Daniele Salvo che torna, dopo tanti anni, a curare una rappresentazione per il Teatro Greco.

Messa in scena dall’autore nella primavera del 421 a. C, questa commedia di Aristofane rappresenta uno dei soggetti prediletti dal commediografo ateniese: la condanna della guerra (come negli Acarnesi, in Lisistrata, ecc.).

Trigeo, vignaiolo ateniese decide di salire all’Olimpo per parlare con Zeus, per chiedergli di fare cessare la guerra (del Peloponneso). Il suo “destriero” alato, il suo Pegaso, sarà uno scarabeo stercorario gigantesco.

Gli dei, inferociti con gli umani, hanno lasciato la parte bassa dell’Olimpo e qui si trovano, adesso, solo Hermes e Polemòs che ha rinchiuso la Pace in una profonda caverna. Con precisi riferimenti alla grave situazione del suo tempo, Aristofane indica nei generali Cleone (ateniese) e Brasida (spartano) la responsabilità diretta della cruenta e terribile guerra che da anni affligge l’Attica. Il commediografo usa la metafora del pestello del mortaio col  quale il dio intende annientare, polverizzare le città greche. Polemòs cerca da loro lo strumento di morte quando viene a sapere che entrambi sono deceduti.

E’ il momento opportuno: Trigeo chiama a raccolta tutti i contadini, i mercanti, gli artigiani dell’Ellade e, insieme, riescono a liberare la Pace. Hermes spiega le cause della lunga prigionia della dea della concordia e accusa l’insaziabile avidità di potere e di denaro dei politicanti, che si soddisfa solo con la guerra a danno del popolo.

Forse più che le altre, questa commedia è una vera “bizzarra fantasia” (come la definì Silvio D’Amico). Divisa in due dalla parabasi, nella prima parte si enuncia l’antefatto. E qui i servi di Trigeo, intenti a preparare i pasti per lo scarabeo, a base di escrementi e sterco, ascoltano i progetti del loro padrone e lo seguono nel suo viaggio verso i cieli.

Tornato vittorioso Trigeo in compagnia di Pace, Opora, che sarà sua sposa, e Theoria, il coro, nella parabasi, interrompe l’azione e rivolge direttamente il discorso agli spettatori per fare l’apologia del poeta, che entra in scena,  meritevole del massimo riconoscimento perché, evitando di ridicolizzare la povera gente (come era uso degli altri commediografi del tempo), ha invece attaccato direttamente i potenti.

I contadini festeggiano il ritorno della Pace, i fabbricanti di armi lamentano la loro sorte che li ha portati sul lastrico, mentre chi costruisce arnesi per la coltivazione e il raccolto gioisce lieto dei nuovi proventi.

Si prepara il banchetto di nozze di Trigeo e Opora e si gioisce tutti per la pace ritrovata.

Testo molto difficile, fondato in parte più sulle suggestioni visive che sui dialoghi, la commedia presenta un intreccio in alcuni punti piuttosto ripetitivo e quasi ridondante, come se ci fossero delle parti giustapposte.

L’edizione di Daniele Salvo ha  decisamente molti pregi e qualche, perdonabile, difetto. Nel complesso si tratta di uno spettacolo imponente, che fa dell’impatto visivo e della suggestione estetica un suo punto di forza; come egli stesso ha dichiarato: “nel mio allestimento intendo potenziare tutti i mezzi espressivi”, l’ambizione all’opera totale è evidente.  A questo si aggiunge una rilettura del testo resa, grazie alla traduzione di Nicola Cadoni, snella, pungente, scoppiettante, colorita di tante cadenze dialettali come a creare una koinè popolare e comica e  che si avvale anche di una forte struttura musicale orchestrata dalla creatività di Patrizio Maria D’Artista. Non siamo ancora del tutto convinti se questa impostazione musicale sia uno dei pregi o, forse, una deminutio della costruzione complessiva.   Forse un pregiudizio ci spinge a non aspettarci una commedia che sembri un musical.

Qualche momento dello spettacolo, con monologhi cantati, com quello di Pòlemos, sembravano strizzare l’occhio ai colossal della Disney o ai grandi musical letterari tanto amati dal pubblico. Decisamente più belle le parti musicali affidate al coro, una massa brulicante di contadini con costumi color ocra, che cantano e si muovono all’unisono e coinvolgono lo spettatore tirandolo in causa. Belle le coreografie, sempre (opera di Miki Matsuse), soprattutto nel vortice dei festeggiamenti del popolo, con i loro passi gioiosi, sfrenati, che sono “espressioni del corpo umano”, non danza in senso convenzionale. Le atmosfere balcaniche del banchetto nuziale rappresentano poi un momento liberatorio e così gioioso da spingere il pubblico ad alzarsi in piedi e ballare a quel ritmo sfrenato.

Un difetto, forse un piccola caduta verso un riferimento banale, la citazione del brindisi della Traviata, così scontato che ci ha sorpreso.

Coreografie e costumi aggiungono visione alla visione. I colori dei costumi, con tutte le tonalità del giallo,  le forme a metà tra gli spaventapasseri e i quadri di Bosch, ricordano il Decameron di Pasolini, infatti il costumista, Daniele Gelsi, lo cita apertamente. Il tutto si innesta in una scenografia (opera di Michele Ciacciofera e  Alessandro Chiti) costituita da pochi elementi dal forte valore simbolico: un’enorme sfera riflettente al centro a rappresentare l’Olimpo ma anche la terra che poi, sul finale, assimila un riferimento al palazzo di vetro dell’Onu quando la concordia dei popoli si esplica con un trionfo di bandiere di tutti gli stati. L’istallazione del gigantesco scarabeo che sale verso il cielo con la gru (la stessa di Medea), come un deus ex machina alla rovescia, il grande tappeto-mondo nella scena iniziale, e pochi altri elementi come il carro del fabbricante di armi o le tavole imbandite per i banchetti e le libagioni.

La drammaturgia complessiva è carica di trovate intelligenti e frutto di quella perizia scenica che Daniele Salvo da anni sa dimostrare. Di grande impatto la scena iniziale: la guerra irrompe sull’orchestra del Teatro Greco con un’immagine epica. Ateniesi e Spartani, con le loro armature, gli elmi, gli scudi, le lance, le spade, la forza dei duelli, l’impatto dei corpi, il dolore. La guerra con l’orrore della violenza, la guerra da sempre  flagello  dell’umanità. Ai piedi il mondo allora conosciuto rappresentato in una carta geografica, il Mediterraneo, la culla delle civiltà, il teatro delle carneficine di tutti i tempi. Quando Polemòs grida il suo odio verso gli uomini e l’intento di annientarli con la guerra, il mondo viene inghiottito, viene trascinato nelle viscere del nulla che è il destino di un’ umanità dove prevale la sopraffazione, il profitto, la morte.

Il messaggio di Aristofane è sin troppo chiaro, il riferimento al nostro presente è (ahimè) palese. Non era necessario considerare più Cleone che Brasida come il responsabile di tanto male. Se Euripide (pur rivale e qui citato nel testo) ci aveva insegnato che dalla guerra si esce solo sconfitti, questa traduzione che si avvicina di più, invece, al pensiero unico contemporaneo, certamente ha il demerito di circoscrivere la condanna della guerra a un solo responsabile, riducendo la portata del messaggio.

Quello che condividiamo assolutamente con il regista è la sua idea sul teatro classico, quando sostiene che la tragedia e la commedia sono attuali di per sé e non vanno “attualizzate” riempendo il palcoscenico di segni contemporanei”. In questo gli riconosciamo il merito di saper rispettare, nelle sue regie, gli autori senza le manipolazioni di tanti suoi colleghi che portano sulle scene di Siracusa, da anni ormai, delle “auto-marchette” come, nelle battute di Aristofane qui in scena, il commediografo accusa.

La vera autentica forza di questa edizione sono gli interpreti.

Meriterebbero davvero tutti di essere citati, dai corifei, al mercante d’armi (Giuseppe Rispoli) con la sua cadenza napoletana, al fabbricante di falci (Paolo Giangrasso) accento palermitano e caratterizzazione sicula, alle tre eteree creature Pace, Opora, Theoria (rispettivamente Jacqueline Bulnés, Federica Clementi, Gemma Lapi). E poi Polemòs, Patrizio Cigliano, dal timbro di voce scura, potente, sia nel canto che nei dialoghi. I servi di Trigeo, due deliziose macchiette, dall’accento toscano, Simone Ciampi e Martino Duane. Poi Ermes, Massimo Verdastro (anche nel ruolo di Ierocle), abilissimo nel costruire un personaggio a metà tra il comico e il patetico, mai caricato, un dio umano, che si allea con gli uomini, con l’uomo. L’uomo è Trigeo, che Daniele Salvo ha definito l’uomo verticale perché ascende verso il cielo degli dei ma poi ritorna sulla terra pacificata, contadino tra i contadini.

Questo protagonista, antieroe ma eroe vero, sulla scena di Siracusa è Giuseppe Battiston, attore conosciuto al grande pubblico per fiction televisive di successo e film di registi italiani, ma che ha una carriera teatrale fatta di operazioni complesse e importanti   (vogliamo ricordare solo Winston vs Churchill  o La morte di Danton).

Battiston porta qui la cadenza friulana di un vignaiolo legato alla sua terra, alla vigna, alla produttività sacra dei contadini (come ci insegna Pasolini che è l’altro grande riferimento di questa messa in scena). La sua voce si presta a una naturale melodia che passa dalla volontà di potenza, come un Don Chisciotte ante litteram, hidalgo di una missione per salvare l’umanità, alla ilarità nel deridere gli sconfitti, i produttori di armi, alla dolcezza verso le tre creature angeliche.

Il personaggio è il perno di tutta la vicenda,  l’attore è il perno di tutta la compagnia. Muove il suo fisico possente con agilità nelle danze e con lieve caricatura laddove deve costruire il ruolo comico. I suoi occhi brillano di una luce che supera le distanze e arriva allo spettatore, in profondità.

Oggi servirebbe un Trigeo; purtroppo quella di Aristofane continua ad essere definita un’utopia.

Siamo abbastanza convinti di poter indicare questa prima edizione della Pace a Siracusa come vicina alla perfezione; se non l’ha raggiunta, forse, è perché avrebbe richiesto più tempo per “pensarla”, per costruire e selezionare, snellire in alcuni punti, valorizzare di più il messaggio.

Perché quel messaggio, gridato dalla dea Pace sul finale è così necessario, così drammatico, così presente nei nostri giorni. “Lasciate l’avidità. Lasciatela. Quando due uomini mirano allo stesso obiettivo, allora la follia raddoppia, e non c’è male più funesto”.

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