Movimento tra gli orrori della Storia: “Ka-be” di Petranuradanza a Scenario Pubblico

Ronda nella memoria e nella notte – reale e metaforica – con forca e orrori. Fra teatro e danza, performance e denuncia si snoda “Ka-Be” della Compagnia Petranuradanza, inserita in “Pensare”, il cartellone di Scenario Pubblico 2022. Ciò che colpisce immediatamente dello spettacolo – con le coreografie e la regia di Salvatore Romania e Laura Odierna, le musiche originali di Salvo Amore – è certo la dimensione sonora perturbante, invasiva, asfissiante: canzoni – un ossessionante e ahimè evocativo loop di Lilì Marlene, rumori, ordini perentori, urla, esplosioni, treni in arrivo su binari di morte e, su tutto, la coazione a ripetere di una memoria devastata dal suo stesso assedio. Il richiamo lampante è al quarto capitolo di “Se questo è un uomo” di Primo Levi: “Ka-be” è infatti l’abbreviazione di Krankenbau, ospedale, “otto baracche dove pochi vi soggiornano più di 2 settimane e nessuno più di 2 mesi: o si guarisce o si viene mandati alle camere a gas.” Eppure il testo di Levi serve solo come innesco ad una rappresentazione che si incentra sulla necessità della memoria e sui pericoli dei suoi spaventevoli “vuoti” che la Storia continua a produrre. La scena sono i lager della modernità, tutti gli Auschwitz di turno, con i loro tragici protagonisti: aguzzini e vittime. All’interno di questa atmosfera concentrazionaria e punitiva si muove solo un danzatore rammemorante – lo stesso Salvatore Romania – i cui movimenti essenziali sono accompagnati da tre musicisti: Salvo Amore (chitarre), Carlo Cattano (sax e flauti) e Giovanni Arena (contrabbasso). Nella raccolta simbolica degli stracci sparsi sulla scena, involucri di esistenze annullate, Romania si abbassa a cogliere ognuna di quelle vite orrendamente interrotte, prima che irrompano le sconvolgenti immagini dei mattatoi continuamente rinnovati della Storia: dal Vietnam al Darfour, dai campi libici di detenzione per i migranti a quelli per gli omosessuali in Cecenia. Una antologica bestiale sulla quale campeggia sinistramente, triste e orrendo totem di ogni intolleranza, un impermeabile nazista e la vertigine irrazionale delle note. La narrazione in movimento procede sul filo incerto, magmatico e frammentato della memoria degli uni e degli altri: vittime – cadere, rialzarsi, forse sperare, ricadere: il circolo opprimente di un prigioniero – e carnefici: lì dove lo stile di Romania si incardina su quasi-spasmi, o si dimena in pose esasperate da marionetta, specchio deformante del loro delirio di violenza. L’alternarsi poi di silenzi e di suoni, di movimento e di stasi, risucchia lo spettacolo dentro un buco nero onnivoro, un sottovuoto spazio-temporale che evoca l’operare assoluto della violenza e nel quale tutto è cristallizzato da un orrore cui non si sottrae nemmeno il lirismo della danza della prigioniera rasata a zero (forse il momento più intenso di “Ka-be”) insieme allo stravolgimento espressivo e deformante di gerarchi di vecchi e nuovi fascismi (e nel quale abbiamo intravisto un’ombra dal “Grande dittatore” chapliniano), contrappuntato da un sottofondo musicale esasperato e marziale: un climax che si aggruma alla fine sulla sagoma crocifissa di una vittima che Romania disegna sulla nuda scena: figura di ogni innocenza immolata dall’opaco atomo del male.

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